Mondo
Le ultime parole di Ales Bialiatski
Vita ha rintracciato due rari interventi del nuovo Nobel per la Pace, su un giornale norvegese ed uno croato dell'estate di due anni fa. Quando il 60enne attivista bielorusso era ancora in libertà e sperava che le imponenti manifestazioni contro l'ennesima frode elettorale del presidente de facto Alexander Lukashenko, al sesto mandato consecutivo, riuscissero ad attirare l'attenzione del mondo e a liberare il suo paese dalla tirannia
di Paolo Manzo
Il Premio Nobel per la Pace 2022 è stato assegnato al 60enne attivista bielorusso Ales Bialiatski (foto) alla ong russa Memorial e al Centro per le libertà civili ucraino. I vincitori “rappresentano la società civile nei loro paesi d’origine e il comitato del Premio Nobel ha voluto onorare tre campioni dei diritti umani, della democrazia e della convivenza pacifica nelle vicine Bielorussia, Russia e Ucraina, due regimi autoritari e una nazione in guerra”, ha affermato Berit Reiss-Andersen, la presidente del comitato. Dopo l'annuncio, gli organizzatori del Nobel hanno chiesto alle autorità del Paese di rilasciare l’attivista, detenuto dal 2020 "in condizioni disumane”. “Il nostro messaggio è di fare appello alle autorità bielorusse affinché rilascino Bialiatski e la nostra speranza è che ciò avvenga e che possa venire a Oslo per ricevere il premio che gli è stato conferito", ha detto Reiss-Andersen, aggiungendo poi che essendoci "migliaia di prigionieri politici in Bielorussia, temo che il mio desiderio non sia molto realistico”.
Ma chi è Ales Bialiatski, il nuovo Nobel per la Pace?
Nato il 25 settembre del 1962 in Carelia da genitori bielorussi, nel 1996 fonda a Minsk l'organizzazione Vesna, il cui nome significa “Primavera”. Obiettivo lottare per la libertà nel suo paese, oppresso dal dittatore Lukashenko. Una lotta che gli è costata cara. Nel 2011 fu infatti arrestato dopo un’assurda condanna a quattro anni e messo per “frode fiscale". Nel 2014, un emaciato Bialiatski era riuscito a riabbracciare famiglia e amici, dopo tre anni di carcere duro.
Per Ales, il fondatore di “Vesna”, l'inverno dura dunque dal 1994, quando "l'ultimo dittatore d’Europa" prese il potere nell'ex repubblica sovietica. Purtroppo la primavera bielorussa non è ancora arrivata neanche oggi e, dopo le speranze accese dalle proteste di massa del 2020, quest'uomo che combatte da una vita per la democrazia nel suo Paese, è stato di nuovo arrestato per una ridicola accusa di “evasione fiscale, il 14 luglio dell’anno scorso.
Da allora viene torturato e la sua voce non si sente più. I suoi ultimi due interventi risalgono a due anni fa e Vita ve li ripropone in esclusiva.
"Abbiamo speranza – aveva però detto in una videochiamata con il giornale norvegese Stavanger Aftenblad il 21 agosto del 2020 – ma è difficile prevedere il futuro”. Nel 2011 aveva ricevuto il premio per la libertà da Politiken ma, anche all’epoca era in prigione, e quindi, come oggi per il Nobel, non aveva potuto ricevere l’onorificenza personalmente. Il suo riferimento alla “speranza” in quell’intervista era riferito alle centinaia di migliaia di bielorussi scesi in piazza per protestare e chiedere le dimissioni di Lukashenko, dopo le elezioni farsa bielorusse dell'estate 2020. Come risposta la polizia della dittatura arrestò e torturò migliaia di manifestanti. Human Rights Watch stimò che oltre 7.000 persone finirono in prigione. Tuttavia, le manifestazioni continuarono e, secondo Ales Bialiatski, all’epoca ancora libero a Minsk e intervistato da Politiken, il motivo era semplice: "è cresciuta una nuova generazione di bielorussi e per loro i diritti umani e la libertà di parola non sono solo parole vuote, ma un ideale per cui vale la pena lottare. Oggi i bielorussi non vogliono un nuovo Stalin”.
Per questo la libertà significa qualcosa di speciale per Bialiatski, che però faceva fatica a esprimere quale fosse la sua definizione di “libertà”. "Non abbiamo tempo per definire la libertà. Combattiamo per la libertà. Per troppi anni, i bielorussi hanno vissuto in un sistema che ricorda il romanzo di George Orwell, 1984”, diceva poco prima del suo ultimo arresto.
Secondo lui, i sostenitori di Lukashenko "sono soprattutto gli anziani che si aggrappano ancora all'uomo che è stato al potere negli ultimi tre decenni ma anche loro hanno cominciato a voltare le spalle al leader. Ci sono milioni di bielorussi che vogliono un cambiamento perché di certo non sono più gli stessi di 30 anni fa: sono stanchi di essere trattati come animali”.
"Il governo "rimuove" i dissidenti e i critici come Marfa Rabkova, che coordina le attività dell'organizzazione per i diritti umani Viasna, sono diventati obiettivi di Lukashenko dopo la sua controversa vittoria elettorale e sempre più spesso “scompaiono” nelle prigioni come il Centro di detenzione Akrestsina di Minsk”, denunciava lo stesso Bialiatski al quotidiano croato Poslovni Dnevnik, in un suo raro articolo del 2 ottobre 2020.
All’epoca lui era ancora libero ma Marfa era stata arrestata due settimane prima, il 17 settembre. "Persone come lei – spiegava Bialiatski – sono considerate una minaccia dalle autorità bielorusse. La minaccia era il suo lavoro con i volontari che avevano osservato le elezioni e documentato le frodi delle presidenziali. Il suo lavoro che documenta gli abusi contro i manifestanti potrebbe essere utilizzato nelle indagini dalle istituzioni dell’Unione Europea, e quindi per questo il suo lavoro rappresentava una minaccia. Ma soprattutto la minaccia era il sostegno di Maria ai prigionieri. Lukashenko non vuole una società di solidarietà aperta, vuole una società frammentata e paralizzata dalla paura”.
Poi Bialiatski aggiungeva un monito che oggi Bruxelles sarebbe bene ricordasse: "l'Europa deve unirsi per sostenere la lotta della Bielorussia contro la tirannia. Al fine di fare pressione su Lukashenko e il suo governo, la comunità internazionale deve utilizzare tutte le leve disponibili, politiche e finanziarie. Insieme devono sostenere le richieste dei manifestanti per elezioni libere ed eque”.
Purtroppo Lukashenko è ancora al suo posto e Bialiatski è stato messo a tacere, incarcerato e torturato.
Il Nobel per la Pace che ha vinto oggi dovrebbe riportare in primo piano il suo disperato grido di aiuto, che aveva lanciato due anni fa al mondo.
Premiati insieme a Bialiatski anche Memorial e il Center for Civil Liberties.
Memorial, con più di tre decenni di attività, è il più antico gruppo per i diritti umani russo. Fondato da dissidenti sovietici – tra cui il premio Nobel per la pace e fisico nucleare Andrei Sakharov – che si sono dedicati a preservare la memoria dei milioni di russi che morirono o furono perseguitati nei gulag, i campi di lavoro, di Stalin. Nel novembre 2021 la giustizia russa ha disposto lo scioglimento di Memorial, accusando il gruppo di aver “sistematicamente violato” gli obblighi del suo status di “agente estero”. Mosca ha anche affermato che stava applicando leggi per fermare l'estremismo e proteggere il paese dalle influenze esterne. Il mese successivo, la Corte Suprema russa ha ordinato lo scioglimento di Memorial, segnando la fine di un anno di intensa repressione nei confronti di critici e oppositori del governo di Putin. Memorial, dalla sua sede tedesca, ha definito in Nobel “un riconoscimento del nostro lavoro sui diritti umani e in particolare dei nostri colleghi in Russia, che hanno subito e stanno subendo attacchi e repressioni indicibili”.
Il Center for Civil Liberties è invece un'organizzazione internazionale per i diritti umani fondata nel 2007 a Kiev, in Ucraina, e guidata dall’avvocatessa Oleksandra Matviichuk. Il Centro ha svolto un ruolo importante nel documentare gli arresti politici e le sparizioni negli ultimi anni in Ucraina, in particolare dopo le manifestazioni del 2013 e del 2014 contro il presidente Yanukovitch. Il gruppo ha presentato alla Corte penale internazionale certificati sui crimini contro l'umanità commessi dal regime di Yanukovitch durante l'ondata di proteste nota come Euromaidan. Il gruppo ha anche partecipato al monitoraggio dei movimenti russi in Crimea e Donbas e ha acquisito rilevanza dopo l'invasione russa. Tra le altre cose, il Centro monitora le sparizioni forzate effettuate dalle forze militari russe sul territorio ucraino. Sul suo account Twitter, il Center for Civil Liberties dell'Ucraina si è detto "orgoglioso" di essere uno dei premi Nobel per la pace di quest'anno.
La foto in apertura è di Agenzia Sintesi/Avalon
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