Le cronache di questi ultimi giorni raccontano di come Erode sia sempre tra noi e stia trionfando. Ha colpito il 23 maggio a Manchester, a un concerto di Ariana Grande: 22 vittime, tra cui diversi adolescenti, Nell, Sorell, Olivia, Giorgina, e una bambina di soli otto anni, Saffie. L’ISIS ha rivendicato, mentre l’autore risulta essere un giovane nato nel Regno Unito da genitori libici. Il resto del mondo, quanto meno quello occidentale, come dopo il Bataclan di Parigi, si indigna e reagisce, mentre crescono emozione e rabbia.
Poco dopo, il 26 maggio, l’estremismo islamico è tornato sanguinosamente e in modo più organizzato in scena a Maghagham, in Egitto. 28 le vittime tra i cristiani copti, obiettivo dell’attentato. Di nuovo vi sono stati numerosi bambini tra le vittime. Non ne conosciamo il nome e neppure il numero esatto. Il che riduce sensibilmente la capacità e disponibilità occidentale alla commozione, oltre a essere, di per sé, fatto indicativo. I morti nei quali ci possiamo immedesimare sono “i nostri” morti; “gli altri” sono, al più, numeri distanti, tutti uguali, nessuno in grado di scatenare emozioni e un vero cordoglio. È ormai da tempo, perlomeno dalla sciagurata e criminale teorizzazione e messa in pratica della “guerra infinita” da parte dell’amministrazione di George Bush, supportato da quella britannica di Tony Blair, che le immagini di morte e distruzione dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Siria, sono scomparse dagli schermi televisivi. Così indirettamente consentendo l’allargamento e la moltiplicazione dei teatri di guerra e rendendo ininfluenti sull’opinione pubblica mondiale ogni tipo di strage e orrore, bombardamenti degli ospedali compresi. Pratica quest’ultima, per la verità, già sperimentata nella guerra dei Balcani; guerra prodromica, che ha reso possibili tutte le altre che sono seguite.
Il giornalismo embedded ha prodotto la manipolazione e l’addomesticamento della notizia e della realtà. Nel breve volgere di un quindicennio ha disinnescato ogni possibile reazione, emotiva, morale e politica, a livello internazionale.
Le stragi possono replicarsi a ritmo ormai incalzante senza risposta alcuna. Tranne ovviamente quelle, meno frequenti e meno cruente seppur altrettanto terribili, che avvengono in Europa o negli Stati Uniti a opera di fanatici jihadisti, più o meno organizzati; queste riempiono i media, scatenano gli opinionisti, incendiano gli animi.
In due distinti raid aerei il 25 e il 26 maggio, la coalizione militare guidata dagli Stati Uniti ha bombardato alcuni edifici che ospitavano i famigliari di miliziani dello Stato islamico a Madayeen, in Siria. Il primo bilancio è stato di 102 vittime tra i civili; qui la mattanza di bambini è stata ancor più terribile: 42 i piccoli straziati dai missili.
Il comandante della coalizione, colonnello Ryan Dillon, ha ammesso la tragedia, naturalmente addebitandone la responsabilità ultima all’ISIS, poiché manterrebbe i civili nelle zone di guerra.
I cattivi, dunque, sono sempre gli altri, mentre il dolore e la pietà si riservano unicamente ai propri.
Nulla di nuovo, è storia di ogni guerra. È storia quotidiana. Solo in questi giorni il comando delle forze statunitensi, bontà sua, ha ammesso la strage avvenuta lo scorso 17 marzo a Mosul, in Iraq, dove almeno 137 civili (ma potrebbero invece ammontare a diverse centinaia: non solo i nomi, spesso anche i numeri dei civili uccisi in quei lontani e devastati Paesi sono semplici ombre senza spessore) rimasero vittime di uno dei tanti attacchi aerei della Coalizione.
Secondo il monitoraggio che viene svolto dall’organizzazione indipendente Airwars, dall’agosto 2014 i raid della Coalizione militare a guida USA sono stati 21.733, di cui 12.766 in Iraq e 8967 in Siria. Le vittime civili sono calcolate in almeno 3681. Non viene specificato quante tra queste siano bambini, ma sono sicuramente una larga parte.
Pur non esistendo ancora dati altrettanto attendibili sulle vittime civili dei bombardamenti russi nelle stesse regioni, si può certo supporre che anche qui i numeri siano alti.
Cifre drammatiche che non modificano le strategie politiche e belliche e che neppure riescono più, come ai tempi dell’invasione dell’Iraq, a mobilitare le associazioni, la società civile e i movimenti mondiali.
Del resto, la solidarietà organizzata è ora oggetto di una campagna denigratoria e demolitoria che sarebbe stata impensabile solo poco tempo fa. Gli stragisti non tollerano i testimoni dei loro crimini. Campagna che non riguarda solo le ONG impegnate nei salvataggi di tanti esseri umani nel Mediterraneo, divenute oggetto di una virulenta offensiva politico-mediatica senza precedenti, e senza ragioni o dati fattuali, che non siano appunto l’evidente volontà di togliere di mezzo chi ancora mette in cima alle priorità i diritti umani e lo stesso diritto alla vita. Nell’epoca del neocolonialismo e di una globalizzazione diseguale e ingiusta, invece, vi sono vite che valgono meno di una piuma. Vi sono Paesi europei, gli stessi che hanno voluto e promosso i muri per frenare l’esodo umano di chi fugge dai bombardamenti, come l’Ungheria di Viktor Orbán, che hanno in discussione nel proprio Parlamento leggi tese a impedire le attività delle organizzazioni non governative, accusate di essere sostenute da Paesi stranieri. Lo stesso ha già fatto l’Egitto di Al-Sisi, con una nuova legge che mette sotto controllo di esercito e servizi segreti le attività delle ONG, locali e internazionali. Per i nazionalismi e i populismi la categoria dello “straniero” equivale a quella di nemico, attuale o potenziale.
Intanto, sempre il 24 maggio, l'ennesimo naufragio nel Mediterraneo: 34 migranti morti, tra cui almeno una decina i bambini.
La guerra contro i poveri del mondo si sta intensificando e si sta ora rivolgendo anche contro chi quei poveri tenta di aiutare e con i quali, se non altro, si schiera, non rimanendo indifferente.
La pietà sembra morta, assieme al comune senso di giustizia. Sopravvivono sacche di resistenza, anche significative, come la manifestazione milanese del 20 maggio ha evidenziato. Peccato che non influiscano minimamente sulle politiche, come, sempre in Italia, abbiamo visto con i decreti Minniti e le sue scelte in materia di immigrazione, che hanno rivalutato i disumani, costosi e fallimentari CIE, che intendono esternalizzare le frontiere, assieme al contenimento dei migranti e le violazioni dei diritti umani, verso la Libia, e poi, ancora più indietro, verso il Niger e il Ciad. Lontano dagli occhi, lontano dalla comune consapevolezza. A parte il cinismo e l’ipocrisia, tali politiche costano molti soldi, ma vengono evidentemente reputate un buon investimento, specie se rivolto verso Paesi dotati di risorse petrolifere e minerarie. L’accordo europeo con la Turchia ha fatto rapidamente scuola.
Di fronte al diffuso sentimento di impotenza, ci possiamo e dobbiamo almeno fare una domanda. È morta prima la pietà oppure la verità? Difficile capirlo, ma certo una relazione tra le due esiste.
I sentimenti di compassione e anche di indignazione non sembrano più avere una radice e una valenza generale. È umano, riconosciuto e prima ancora sentito come tale, solo il somigliante: per etnia, religione e provenienza geografica, prima di tutto. Ma poi anche per censo e ceto sociale di appartenenza.
Alla contrapposizione amico/nemico che ha segnato il Novecento, fondata principalmente su motivazioni ideologiche, il nuovo secolo ha sostituito l’antagonismo simile/dissimile che facilmente si traduce in autoctono/straniero.
Tutto sommato, non un vero sentimento, almeno al livello dei decisori politici (le emozioni vengono scientificamente provocate, mobilitate e indirizzate, ma riguardano il popolo; anzi “la gente”). Alla base c’è, sempre e semplicemente, una questione di interessi geopolitici e, soprattutto, economici.
Insomma, il regresso morale che sta vivendo il mondo è una lurida questione di soldi. A questo si stanno sacrificando secoli di costruzione di civiltà. L’esortazione di Vittorio Arrigoni, restare umani, è davvero diventato l’ultimo grande e vitale imperativo del nostro tempo.
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