Cultura

Le storie degli altri sulla mappa del cuore

di Luigi Maruzzi

Le copie del libro di Nichi Vendola erano state sistemate da poco sullo scaffale del comparto “poesia”. Nuove e linde, praticamente irresistibili. Dopo aver sbirciato tra i primi versi che mi sono capitati a tiro, ho pensato che ne avrei ricavato un’esperienza di lettura a dir poco intensa (Nichi Vendola, Patrie, edito da Il Saggiatore, 2021).

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Quello che spinge il nostro interesse verso le storie degli altri è difficile da descrivere. All’inizio si manifesta come un sottile filo di dolore e commozione. Poi però rischia di affievolirsi a causa di una sensibilità immatura, oppure – nei casi più significativi – riesce a prendere la direzione di mete lontane (anche se più faticose da raggiungere). In questo senso, l’ultimo libro di Nichi Vendola (Patrie, Milano 2021) offre alcune gocce di testimonianza al corso d’acqua che scorre sotto la superficie di cronache frettolose, per alimentare quella narrazione che moltissime realtà nonprofit e di volontariato non smettono di restituirci.

La poesia di Vendola trova terreno fertile nell’amicizia e negli affetti che non ci sono più (Quando lei, p.67; Il drappo, 77). Ma con “Patrie” l’autore deve aver sentito l’urgenza di cogliere la storicità di questa pubblicazione per mettere a nudo i propri sentimenti e parlare di cose troppo importanti per rimanere sotto un manto di silenzio: ho sfocati ricordi d’infanzia / le biglie un berretto un rossetto / l’odore del gatto / e un dolore invisibile / al mondo (1).
Particolarmente toccanti, poi, sono le reazioni che la lettura dei versi provoca quando Vendola mette i propri ‘tesori’ in diretta comunicazione con il mondo: dalle parole usate per rievocare la nascita del figlio adottivo: una foglia, petalo, filo d’erba / piccina immensità (2), fino alla definizione data al piccolo Aylan Kurdi (“il nostro figlio globale”) (3).

Una caratteristica importante del libro è però legata al fatto che in esso la prospettiva lirica cede il passo ad una poesia più congeniale alla drammaticità dei temi trattati. Ciò che Vendola scrive nella sezione “In morte di Carlo Giuliani” (2001), non è semplicemente un lamento funebre, ma un insieme di denuncia e autodenuncia, un atto di irremovibile schieramento. I titoli dei vari pezzi e la loro sequenza rituale (4) fanno pensare ad una via crucis laica che reclama lo stesso rispetto che riserviamo alla tradizione liturgica.
Su questo stesso binario viaggiano ”Acciaio”: sepolto vivo dentro questa fossa/ giace stremato il lutto proletario (5); “Filastrocca di Antonio Facenna”: eccolo Antonio il mio cristo velato/ imperlato di pece e di alghe /il bel capraro di Vico (6); e “In morte di Paola Labriola, psichiatra”: domestica carneficina /nell’ambulatorio al quartiere Libertà (7).

A fine lettura mi accorgo che la poesia più ‘antica’ risale al 1983, a quando l’autore aveva 25 anni. Se il lettore invertisse l’ordine (cronologico) adottato per ragioni editoriali, noterebbe che alcune combinazioni felici come “una zolla di riluttanza” (8) tornano dopo anni senza perdere la loro ‘castità’ (9). E non mancherebbe di riconoscere la maturità poetica di pezzi come “L’alba di poi” (10). Ma il lettore non sempre è un investigatore. E poi, chi può dire di conoscere perfettamente le reazioni di un cuore che – in piena autonomia – compie mille riflessioni in un lampo?

La natura apparentemente geografica della mappa che Vendola srotola sul tavolo di lavoro (Bari, Salento, Taranto, Genova, Sarajevo, Montréal) tradisce la sua vera sostanza di intricata cartografia dei “reperti emozionali”, illustrata attraverso la declinazione dei nomi dei protagonisti come se ciascuno di essi fosse l’esatto punto cardinale dove si incontrano fatti e sentimenti che rendono possibile il compiersi dell’umana “commedia”.
“Patrie” non è solo una raccolta delle poesie scritte da Nichi Vendola dal 1983 al 2020. Ogni pagina pulsa attenzione al destino degli altri, un'immersione totale nelle profonde acque della memoria, il desiderio incontenibile di proiettarsi fuori dal proprio recinto. In “Patrie” trovo evidenti tracce di sofferenza personale, quella che deriva dalla conoscenza della parola e del suo potere di addolcire, ferire, risanare, illudere, falsificare, lasciare un segno incancellabile che impegna e compromette all’interno di uno scambio continuo tra eternità e immanenza.
E se è vero che Vendola scrive servendosi esclusivamente del nostro algoritmo naturale (11), non deve sfuggirci che lo fa sapendo che nessun uomo (o donna) raggiunge la pienezza senza passare attraverso le sue “smagliature d’infinito” (12). C’è qualcos’altro che riesce ad esprimere un senso più religioso di questo?

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Note

(*) L’immagine riproduce un’opera di Maria & Caktus ("Di quel poco che la terra offre bisogna saper trarre il meglio" – Antonio Facenna), San Nicandro Garganico, 2014

(1) La notte dei maschi, p.91.

(2) Montréal, p. 54.

(3) Patrie, p.14.

(4) Genova, Il corpo di Carlo, Blocco nero, Ipotesi dell’estintore, Filastrocca del Diaz, Filastrocca di Bolzaneto, Rap penitenziario, Sudario, Cancello, La vita breve.

(5) p.105.

(6) p.73.

(7) p. 96.

(8) Parziale rendiconto per la mia donna, p.160.

(9) Io lo so/ che le luci degli angeli /senza filtri senza veli /sono come i tuoi occhi /iridi del buon mattino /fiocchi /di trasparenza (Celeste, p.93).

(10) L’alba di poi /disattesa /schiude la radiale sua /magrezza./ Germogliano rimpianti /mattutini (p.159).

(11) L’espressione è sua: “l’algoritmo di Dio” (p.43), “l’algoritmo del molteplice” (p.60), “per l’algoritmo imploso” (p.95).

(12) Pasoliniana, p.39.

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