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Le sfide di Lula

L'ex presidente dei poveri torna dal primo gennaio 2023 al Palacio do Planalto, ma con il 50,8% dei voti ottenuti dovrà fare i conti anche con il 49,2% dell'elettorato che ha votato Bolsonaro. Mancano ancora due mesi, che si preannunciano tesi, con strade bloccate e migliaia di supporter del presidente uscente che complicano la transizione. Per Lula non sarà facile mantenere le promesse della campagna elettorale anche perché in Parlamento il suo partito ha pochi seggi. La sfida maggiore, però, sarà combattere la fame, che colpisce 33 milioni di brasiliani e salvare l'Amazzonia.

di Paolo Manzo

Dopo l'annuncio della vittoria di Lula non c'è stata, come si temeva, un'esplosione di violenza nelle strade del Brasile, ma da lunedì scorso i camionisti hanno paralizzato le strade di tutto il Paese, in un segno concreto di ciò che potrebbe accadere d'ora in poi.

L’altroieri, dopo due giorni di inquietante silenzio, il presidente Jair Bolsonaro ha finalmente parlato per rivolgersi indirettamente ai camionisti suoi supporter. "Gli attuali movimenti popolari sono frutto dell’indignazione e del sentimento di ingiustizia di come è stato il processo elettorale. Le manifestazioni pacifiche saranno sempre benvenute, ma i nostri metodi non possono essere quelli della sinistra, che hanno sempre danneggiato la popolazione, a cominciare dall’invasioni della proprietà privata, la distruzione del patrimonio pubblico e restrizioni al diritto di spostarsi”. Tutto qui. Troppo poco, visto che dopo il suo appello in cui ha anche dato mandato a che si inizi la transizione di governo, la mattina del 2 novembre erano ancora 146 i blocchi stradali dei camionisti.

Ieri sera, Bolsonaro ha fatto un nuovo appello, questa volta molto diretto, chiedendo ai camionisti di sgomberare le vie di comunicazione e di smettere di violare la legge. Dopo le sue parole i blocchi sono scesi a 106 e, solo oggi vedremo se anche gli altri avranno dato retta al loro “leader”.

Il problema è che, mentre si liberano le strade, anche con le truppe speciali e gas lacrimogeni, decine di migliaia di supporter del presidente che non accettano il risultato delle urne, da ieri hanno cominciato ad occupare piazze e strade di fronte alle caserme di tutto il paese. A Brasilia si stima fossero 30mila e molti erano anche a San Paolo e a Rio de Janeiro. Inquietante il luogo delle manifestazioni, le caserme, e ancor più inquietante la richiesta di chi è sceso in piazza, ovvero l’"intervento federale” che, tradotto sarebbe un “golpe militare”. Grazie a Dio sono una minoranza della popolazione e la speranza è che nei prossimi giorni tornino ad occupare meglio il loro tempo.

È infatti razionalmente impossibile che Bolsonaro faccia un “golpe”. Nella storia del Brasile, infatti, tutti i colpi di stato avvenuti hanno avuto le seguenti circostanze favorevoli: il sostegno della maggioranza della classe media, il sostegno della maggioranza del Parlamento, il sostegno dei grandi banchieri e dei grandi uomini d'affari, il sostegno di qualche potenza straniera, Stati Uniti su tutte, e infine il supporto non meno importante delle Forze Armate.

Bolsonaro non ha mai avuto né ha nessuno di quanto sopra elencato, nonostante lui lo avesse voluto, con tutte le scene teatrali di colpo di stato che lui e i suoi sostenitori più fanatici di fatto hanno “fantasticato” negli ultimi 4 anni.

A Bolsonaro però restano due mesi prima che Lula assuma la presidenza, il primo gennaio prossimo e, di sicuro ci sarà tensione fino al passaggio di consegne.

Lula dovrà sfruttare appieno le sue riconosciute capacità di negoziatore politico in Parlamento dove il suo partito dei lavoratori, il PT, ha appena 68 deputati e nove senatori. Anche con i suoi alleati del Partito Comunista del Brasile (PCdoB), del PSOL dell’astro nascente della sinistra brasiliana, Guilherme Boulos, e di altre forze minori, non riuscirà a mettere in moto i meccanismi parlamentari necessari per approvare leggi fondamentali. Su tutte la riforma fiscale. Dei 308 deputati federali necessari per approvare una legge alla Camera, Lula e i suoi alleati ne hanno attualmente solo 122. Gliene mancano 186. Per raggiungere il quorum ha bisogno di 257 voti, il che significa che dovrebbe raccogliere 135 deputati in più di quelli che ha il suo partito.

Lo stesso al Senato. Con i nove che occupano un seggio per il PT – a cui vanno aggiunti tre suoi alleati – ha quasi un quarto del numero necessario per approvare qualsiasi legge ordinaria. Condizionato da questo panorama in Parlamento, Lula deve anche fare attenzione a quanto accadde alla sua delfina ed ex presidente Dilma Rousseff, sottoposta ad impeachment nel 2016 proprio da un parlamento diventato ostile. Fu in quell’occasione che il nome di Bolsonaro diventò tristemente famoso in Brasile, visto che quando votò per la destituzione di Dilma, ebbe il coraggio di rivendicare la memoria del suo stesso aguzzino, Carlos Brilhante Ustra, un torturatore dell’ultima dittatura militare.

La vera domanda da porsi è: Lula riuscirà a formare un governo, includendo nella sua futura maggioranza anche i partiti del centro?

Viste le sue straordinarie capacità negoziali sì ma, altrettanto di sicuro, non sarà facile per lui governare come 20 anni fa.

Le sfide che oggi ha di fronte il 77enne Lula sono infinite. Combattere la povertà, ricreare occupazione e cercare di fare in modo che il bolsonarismo non diventi un elemento destabilizzante del panorama politico brasiliano, come lo è oggi.

Dopo due anni di pandemia il Brasile di Lula di sicuro avrà come priorità la riduzione dell’enorme divario tra ricchi sempre più ricchi ed i poveri, che stanno aumentando sempre di più. I tagli alle politiche pubbliche degli ultimi due governi (Temer e Bolsonaro), la soppressione del Consiglio Nazionale di sicurezza Alimentare e Nutrizionale e del Ministero dello Sviluppo Agricolo che concentrava le azioni di appoggio all’agricoltura familiare, hanno fatto retrocedere il Brasile ai dati di oggi, che dicono che 33 milioni di brasiliani soffrono la fame.

La seconda priorità per Lula si spera sia la foresta amazzonica martoriata da Bolsonaro, una sorta di Nerone dei nostri tempi. La sua promessa è di arrivare al “Disboscamento Zero” entro il 2030 e fa ben sperare che, subito dopo la sua vittoria, sia Norvegia che Germania abbiano ripreso a finanziare il Fondo Amazzonia.

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