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Le “seconde generazioni” vanno alla guerra. Per loro “cittadinanza a tempo”?
Seconde o, meglio, delle terze generazioni: cittadini europei, figli di immigrati o figli di figli di immigrati, che col Paese di origine (dei genitori o dei nonni) hanno legami al tempo stesso fragili e forti, labili e idealizzati. Sono loro, oggi, i foreign fighters ideali per le reti di terrorismo globale? La risposta è probabilmente affermativa
di Marco Dotti
L'Europa si scopre fragile, ma soprattutto impaurita. Pochi, anche fra coloro che parlano dei cosiddetti "foreign fighters", hanno colto un punto critico, se non proprio di snervamento del sistema-Europa.
In troppi, infatti, ancora credono che questi miliziani votati a cause "altre" o straniere siano: a) spiantati in cerca di qualche avvenutura esotico-militare; 2) immigrati che, arrivati qui, trovano qui – e saremmo dunque al paradosso – ciò che non hanno trovato al proprio Paese: ossia un indottrinamento ideologico-militare.
Le seconde generazioni vanno alla guerra
Come sempre avviene quando c'è la realtà di mezzo, il problema è più complesso. E in questa complessità rientra il problema delle seconde o, meglio, delle terze generazioni: cittadini europei, figli di immigrati o figli di figli di immigrati, che col Paese di origine (dei genitori o dei nonni) hanno legami al tempo stesso fragili e forti, labili e idealizzati. Sono loro, oggi, i foreign fighters ideali per le reti di terrorismo globale? La risposta è probabilmente affermativa. Ecco un grafico che mostra i luoghi di provenienza dei combattenti stranieri in Siria. Come si vede, il Belgio, cuore dell'Europa, è al primo posto:
Le destinazioni finali di questi miliziani 2.0 sono: Siria, Iraq, Afganistan, Somalia e – terreno sul quale, dopo i fatti di Parigi, si è concentrata l'attenzione degli analisti – lo Yemen.
A preoccupare è un doppio movimento:
a) da un lato la generale tendenza all'individualizzazione della guerra. Con "individualizzazione della guerra", il sociologo tedesco Ulrich Beck individuava la minaccia di portata transnazionale messa in atto o anche semplicemente rappresentata da soggetti e reti di soggetti che operano a livello substatale;
b) dall'altro lato, la facilità di trovare terreno fertile non tanto – come retorica vorrebbe – nell'immigrazione tout court, ma nel disagio che colpisce chi, anche a causa della crisi, si trova doppiamente sradicato (sradicato da un Paese d'origine famigliare che poco o per nulla conosce, sradicato dal lugoo che fino a ieri mostrava di accoglierlo): le seconde e terze generazioni.
Verso la cittadinanza a punti o a tempo?
In Belgio, ad esempio, si stimano in numero superiore a 1000 queste nuove generazioni votate alla guerra. Mettiamo per ora tra parentesi – comprendo che le parentesi cominciano a essere tante, ma la chiarezza chiede talvolta la sospensione temporanea di un giudizio – a quali guerre questi ragazzi si sentano votati o chiamati. Resta un fatto: i neocittadini – rectius: una parte, forse la meno privilegiata di loro – sono pronti a rivoltarsi contro l'Europa che ha accolto i loro genitori e i loro nonni. Siccome si tratta di un problema come tale andrebbe affrontato.
In Belgio, sull'onda dei numeri e dell'allarme sociale (poche ore fa un allarme bomba si è rivelato fortunatamente un falso), il governo diretto da Charles Michel prepara una stretta sulle intercettazioni, sui reati d'opinione e sulla "cittadinanza a tempo, " la cosiddetta "écheance de la citoyenneté" .
Se ne discuterà oggi, in Belgio, ma il dado – almeno come possibilità – è tratto. Dopo la patente a punti, avremo la cittadinanza a punti o a scadenza?
Ma il problema, a questo punto, come in un cosmopolitismo rovesciato, riguarderà tutti, non solo un manipolo di fanatici…
@oilforbook
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