Famiglia

Le scuole speciali sono ancora normali

Perché resistono le strutture per disabili che la riforma doveva abolire

di Sara De Carli

Sono 83 frequentate da 2.302 alunni: trent’anni dopo
la loro formale cancellazione, questi istituti sono sempre più richiesti. Ecco come funzionano Il prossimo anno scolastico la scuola speciale Paolo e Larissa Pini, a Milano, avrà 70 alunni invece degli attuali 60: +17%. A La Nostra Famiglia, solo nella sede di Bosisio Parini, nel lecchese, gli allievi dei corsi di formazione professionale per l’integrazione saliranno da 64 a 70: +8%. Alla Vaccari, a Roma, il 28% resta fuori ogni anno, in lista d’attesa. La scuola speciale, insomma, trent’anni dopo la sua teorica estinzione a mezzo legge, sta vivendo un imprevisto ritorno. Il suo fascino è quello di una scuola specializzata, con un alto tasso di competenze specifiche, un turn over degli insegnanti lontano anni luce da quello che i ragazzi sono costretti a subire nella “scuola di tutti” e una presa in carico personalizzata.

L’estinzione rinviata
Le scuole speciali, in Italia, avrebbero dovuto essere cancellate fin dal 1977, quando la legge 517 scelse l’integrazione scolastica come via maestra per l’istruzione degli alunni disabili. Nessun testo, però, in trent’anni ha abrogato formalmente le leggi precedenti in materia e così le scuole speciali hanno continuato ad esistere: ancora oggi il loro riferimento normativo è la legge 118 del 1971. Naturalmente queste scuole sopravvivono perché c’è un bisogno: l’ultimo censimento ministeriale, nel 2005/06, ne ha contate 83, frequentate da 2.302 alunni. Nel nostro piccolo viaggio nelle scuole speciali del 2010, due su tre si appoggiano a un istituto di riabilitazione, mentre la scuola Pini di Milano è una scuola statale tout court.

Speciali perché
Il piazzale dell’istituto Pini, alle 9 del mattino, sembra un alveare. Dalle varie zone della città sciamano qui i pulmini gialli dell’Atm che accompagnano gli alunni disabili. Qui come in tutte le altre scuole speciali i ragazzi restano dalle 9 alle 16, dai 6 ai 16 anni, che per le famiglie è un bel sollievo. Chi arriva in una scuola speciale è in genere un ragazzino molto grave, con disabilità plurime, deficit plurisensoriali e ritardi mentali consistenti: «Hanno bisogno di un’accoglienza specifica e di professionalità diverse che ruotino attorno a loro, magari anche sanitarie, che una scuola normale non può offrire», dice Brunella Maiolini, dirigente del XX circolo didattico di Roma, che comprende anche la scuola elementare Vaccari. Lì infatti le ore di didattica si affiancano a psicomotricità, rilassamento, musicoterapia. Anna Zoppi però, che a Milano dirige l’istituto comprensivo Pini, esclude che la gravità porti necessariamente a una scuola speciale: «È sempre una scelta delle famiglie».
Il proprium della scuola speciale, paradossalmente, non consiste nell’avere un insegnante per ogni alunno. A guardare i numeri, anzi, sulla carta il rapporto è a vantaggio della scuola di tutti: là un insegnante di sostegno ogni due alunni, qua si varia dai due insegnanti ogni tre bambini della Pini all’uno ogni tre di La Nostra Famiglia fino ai due per cinque della Vaccari. «È anche positivo, perché in questo modo i ragazzi fanno esperienza di gruppo, tra pari. Nella scuola normale invece si confrontano solo con ragazzi più bravi, con esiti pesanti sull’autostima», spiega Carla Andreotti, direttore centrale Sviluppo e formazione di La Nostra Famiglia. Certo questi prof hanno una “vocazione”: le graduatorie a cui si attinge non sono quelle degli insegnanti di sostegno, ma quelle degli insegnanti di scuola primaria, con una specializzazione mirata. Molti arrivano alla pensione qui dentro, «perché chi entra qui lo fa per scelta», precisa la Zoppi.

Gabbie dorate?
Ma come, verrebbe da dire. Proprio noi, precursori mondiali dell’inclusione scolastica, che l’abbiamo inventata e portata fin dentro la Convenzione Onu per le persone con disabilità, torniamo ai ghetti dorati? Dal di dentro, nessuno mette in discussione l’integrazione scolastica, né come modello né – tantomento – come valore. Tutti, anzi, hanno in atto continui rapporti con le classi normali degli istituti a cui appartengono o con le scuole del territorio. «Oggi la scuola speciale non è un’alternativa rispetto all’inclusione, ma un complemento», dice la Maiolini. «Io non vedo due proposte», le fa eco la Zoppi: «il punto è fare una verifica costante dei bisogni di ogni singolo alunno». «Sono qui da 41 anni e sono un po’ stanca di battagliare, di essere guardata come quella che non dovrebbe neanche esistere», ammette la Andreotti.
Alle critiche, lei, risponde così: «Distorsioni ci saranno anche state, ma io sono sicura che qui dentro facciamo inclusione, non segregazione. Ho visto generazioni di ragazzi e tutti tirano fuori capacità impensabili. Concentriamoci su questo: tutta l’ideologia che si aggiunge rende più rigido il trovare delle risposte per loro».


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