Cultura

Le sanzioni all’Iraq e i peccati di omissione dei media americani

Rahul Mahajan, un membro dell’organizzazione pacifista americana Peace Action denuncia il silenzio colpevole di giornali e televisioni USA sulla reale situazione nel paese arabo

di Redazione

Lesley Stahl, corrispondente della rete televisiva americana CBS, a proposito delle sanzioni americane contro l?Iraq: “Abbiamo saputo che sono morti mezzo milione di bambini, più di quanti ne uccise la bomba di Hiroshima. Valeva la pena far pagare un simile prezzo?” Madeleine Albright, segretario di Stato con l?Amministrazione Clinton: “Credo che sia stata una scelta molto difficile, ma quanto al prezzo, pensiamo che ne valesse la pena.” Dal programma televisivo “60 minutes” (12-5-96) Le parole dell?ex segretario di Stato americano Madeleine Albright, la quale affermò serenamente che gli obiettivi politici degli Stati Uniti valevano il sacrificio di mezzo milione di bambini iracheni, sono state abbondantemente riprese dalla stampa araba, e anche da organi d?informazione americani in controtendenza rispetto a ciò che hanno scritto gli altri giornali dopo l?11 settembre (è il caso di Alexander Cockburn, New York Press, 26-9-01) Ma una ricerca del Dow Jones, l?indice della Borsa di Wall Street, sulle fonti giornalistiche più utilizzate a partire dall?11 settembre ha rivelato un solo riferimento alle parole della Albright: in una pagina op-ed (pagina in cui commentatori ed editorialisti interni ed esterni al giornale esprimono con le loro opinioni la posizione della testata) dell?Orange Country Register (9/16/01). Si tratta di un?omissione sorprendente, se si considera il ruolo primario che le sanzioni contro l?Iraq hanno nell?ideologia dell?arcinemico Osama bin Laden; nel video che il miliardario saudita ha fatto girare per i suoi centri di arruolamento si vedono bambini iracheni che si spengono lentamente per mancanza di cibo e di medicine (New York Daily News, 9/28/01). A quanto pare, sui media americani non è possibile dire che Madeleine Albright e Osama bin Laden forse la pensano allo stesso modo su un punto: e cioè che la morte di migliaia di innocenti è un prezzo che vale la pena pagare per raggiungere un obiettivo politico. Va segnalato che a ?60 minuti? la Albright non ha tentato in alcun modo di negare il dato di Stahl, che ha citato con approssimazione la valutazione preliminare di un rapporto presentato dalla FAO (l?agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di temi legati all’agricoltura e all’alimentazione) nel 1995 secondo il quale 567.000 bambini iracheni sotto i cinque anni erano morti per colpa delle sanzioni. Ben diversa è stata invece al riguardo la reazione dei funzionari del governo americano: un fuoco di sbarramento di dichiarazioni ambigue, negazione della validità delle fonti ONU, insinuazioni su conti ideologici da regolare da parte di chi lanciava le accuse (Extra!, 3-4-00). Si è anche tentato di ridimensionare al massimo le cifre. All?inizio del 1998 Richard Garfield, docente della Columbia University, pubblicò dati ripresi da varie testate giornalistiche (per esempio dal Times-Picayune di New Orleans, 15-2-98) secondo i quali il numero dei bambini iracheni al di sotto dei cinque anni morti a causa delle sanzioni oscillava tra i 106.000 e i 227.000. In seguito l?UNICEF pubblicò il primo rapporto autorevole (agosto ?99), frutto di un?indagine su 24.000 nuclei familiari, dal quale risultava che in totale le morti ?eccessive? ? e cioè al di sopra del livello normale ? di bambini con meno di cinque anni erano circa 500.000. Da una ricerca del Dow Jones risulta che, sebbene alcuni giornali americani abbiano dato notizia del rapporto UNICEF, nessuno ha scritto che il dato precedente era stato contraddetto. Anzi, la stampa continua a citare i vecchi dati forniti dal professor Garfield (Baltimore Sun, 24-9-01). Di chi è la colpa? L?estate del 2001 ha visto tornare alla ribalta l?argomentazione da tempo screditata secondo cui le sofferenze del popolo iracheno non sono da imputare alle sanzioni, ma unicamente a Saddam Hussein, un?argomentazione sostenuta in un rapporto del Dipartimento di Stato (8-99) pubblicato poco tempo dopo quello dell?UNICEF sul numero deìi bambini morti. Appigliandosi al fatto che la mortalità infantile era diminuita nell?Iraq settentrionale sotto amministrazione ONU, e più che raddoppiata invece nel resto del paese, il Dipartimento di Stato accusò Baghdad di appropriazione indebita su larga scala di fondi provenienti dalla vendita di greggio e destinati a impieghi umanitari. Michael Rubin del Washington Institute for Near East Policy, che ha trascorso da privato cittadino nove mesi nel nord dell?Iraq, ha sostenuto questo punto di vista in almeno otto pagine op-ed su quotidiani che andavano dal Wall Street Journal (8/9/01) al Los Angeles Times (8/12/01). Insistendo sempre sulla stessa tesi fondamentale: dal momento che le condizioni di vita nel nord dell?Iraq sono molto migliori che nel resto del paese, Saddam molto probabilmente usa i soldi della formula petrolio-in-cambio-di-cibo per comprare armi; gli iracheni non vogliono la revoca delle sanzioni, vogliono che Saddam se ne vada; gli Stati Uniti dovrebbero favorire il rovesciamento di Saddam. In realtà, il denaro del programma di aiuti è amministrato dall?ONU e pagato direttamente a fornitori stranieri dopo essere stato prelevato da un conto corrente presso una banca americana, perciò l?appropriazione indebita diretta di fondi è impossibile. Le voci di appropriazione indebita di generi alimentari al loro arrivo a destinazione sono state ripetutamente smentite da funzionari ONU che gestiscono il programma in Iraq (per esempio da Denis Halliday, comunicato stampa del 20-9-99), ma la cosa ha lasciato del tutto indifferenti i media (Extra! 4-3-00). La disparità tra nord e sud in Iraq ha a che fare soprattutto con fattori strutturali generalmente non considerati dalla stampa, tra cui il fatto che il nord, il granaio del paese, dipende molto meno dalle importazioni alimentari. Gli abitanti del nord ricevono pro capite il 50 per cento in più di aiuti nel quadro dell?operazione ?petrolio-in-cambio-di-cibo ?, e soccorsi umanitari in misura molto maggiore. A Rubin è stato concesso spazio a volontà per dire il falso sugli effetti delle sanzioni, mentre coloro che le disapprovano sono stati praticamente tagliati fuori dal dibattito. Quando l?Amministrazione Bush ha proposto un nuovo embargo dalle conseguenze apparentemente meno micidiali chiamandolo ?sanzioni intelligenti?, un solo grande giornale (Seattle Times, 14-5-01) è uscito con una pagina op-ed che criticava il progetto perché non faceva abbastanza per aiutare il popolo iracheno. Tra coloro che non hanno potuto veder pubblicato il loro punto di vista figurano Denis Halliday e Hans von Sponeck, due ex coordinatori che si sono dimessi perché il programma ONU non riusciva a evitare il disastro umanitario causato dalle sanzioni. Guerra biologica? Ora che la minaccia della guerra biologica si ripresenta in tutta la sua gravità negli Stati Uniti vale la pena segnalare un esempio di uso della malattia per scopi militari che è passato quasi inosservato. L?anno scorso Thomas Nagy della Georgetown University ha scoperto un documento della Defense Intelligence Agency intitolato ?Vulnerabilità del trattamento acque in Iraq? e fatto circolare in tutti i principali comandi alleati un giorno dopo l?inizio della Guerra del Golfo. Il documento analizza i punti deboli del sistema iracheno per il trattamento delle acque, gli effetti di sanzioni su un sistema danneggiato e le conseguenze di acqua non potabilizzata sulla salute della popolazione irachena. Osservando che, in base alle sanzioni, il cloro è uno dei prodotti sotto embargo, il documento ipotizza inoltre che ?l?Iraq potrebbe tentare di convincere le Nazioni Unite o singoli paesi a esentare dalle sanzioni, per ragioni umanitarie, le forniture per il trattamento delle acque?, cosa alla quale gli Stati Uniti si oppongono da anni. Se si considera che quasi tutti i grandi impianti di potabilizzazione del paese sono stati bombardati durante la Guerra del Golfo, e sette dighe su dieci distrutte, si deve concludere che i sistemi di rifornimento idrico iracheni sono stati deliberatamente presi di mira per poter esercitare ?influenza politica dopo la guerra?, un concetto che, per ammissione di funzionari governativi americani, rientrava nei piani militari per la guerra del Golfo (Washington Post, 23-6-91). Un?indagine commissionata nel 2000 dal Dow Jones ha trovato menzionata questa prova solo una volta in un giornale americano, e per giunta in una lettera al direttore (Austin American-Statesman, 1-10-00). Altri documenti scoperti da Nagy (The Progressive, 10-8-01) indicano che il piano per distruggere gli impianti di potabilizzazione, e limitare poi il rifornimento di cloro e di altri prodotti necessari al trattamento delle acque, venne concepito con piena cognizione dell?epidemia di malattie causate dall?acqua non potabile che ne sarebbe seguita. ?Non esistono impianti per il trattamento delle acque e dei liquami, e risulta che l?incidenza della diarrea sia quattro volte più alta del normale? si legge in un rapporto sulla situazione nel paese scritto dopo la guerra; ?scoppieranno altre epidemie a causa dell?inadeguato trattamento delle acque e degli impianti fognari poco funzionanti? prediceva un altro documento. Si aggiungano a tutto questo le restrizioni arbitrarie sui farmaci, la distruzione dei laboratori iracheni per la produzione di vaccini e il fatto che, fino all?estate scorsa, i vaccini per le comuni malattie infettive facevano parte della cosiddetta ?lista della risoluzione ONU 1051?, un elenco delle sostanze praticamente bandite dall?Iraq. Creare deliberatamente le condizioni per l?insorgere delle malattie e poi far mancare i farmaci per curarle è moralmente poco diverso dal diffondere un batterio letale come l?antrace, ma nessuno dei grandi giornali americani sembra avere denunciato l?impiego di armi biologiche da parte degli Stati Uniti o pubblicato un articolo sulle prove scoperte al riguardo da Nagy (il Capitol Times di Madison del 14 ?8-1 e l?Idaho Statesman del 2-10-01 contenevano op-ed che parlavano del lavoro di Nagy.) È diminuita la sicurezza? Anche se i mezzi di comunicazione americani non hanno prestato un?attenzione molto vigile ai costi che l?Iraq paga per le sanzioni, ci si aspetterebbe che il nuovo allarme sicurezza provochi un riesame critico della situazione per stabilire se la politica USA nei confronti dell?Iraq contribuisca a rafforzare o meno la sicurezza dell?America. Ma nessuno si è preoccupato di riesaminare, per esempio, la campagna di bombardamenti del dicembre 1998 chiamata ?Desert Fox?. Contrariamente a gran parte di quanto riferito in seguito dai media, l?Iraq non ha espulso gli ispettori agli armamenti inviati dall?ONU; è stata Washington a ordinarne il ritiro mentre si preparava a lanciare l?attacco non provocato e non autorizzato. Molti all?epoca osservarono che questa mossa avrebbe reso impossibili future ispezioni – specialmente dopo la scoperta che la CIA aveva usato questi controlli come copertura per operazioni di spionaggio militare (Washington Post, 6-1-99; Extra!, 4-3-99) – e impossibile verificare se l?Iraq non aveva armi di distruzione di massa. Questa analisi trovò allora poco spazio nei media. Secondo analisti come il Merchant International Group (Times di Londra, 1/1/99) l?effetto destabilizzante dei raid aerei avrebbe avuto come probabile conseguenza un aumento del rischio terrorismo. Eppure anche in tempi più recenti la politica americana non si è allontanata dai sentieri battuti in precedenza. Lo scorso luglio Washington ha deciso di cestinare la proposta di un protocollo per le ispezioni e altri meccanismi che avrebbero dovuto dare efficacia alla Convenzione sulle armi biologiche e tossiche del 1972, preferendo puntare su sorveglianza, spionaggio e interventi unilaterali (New York Times, 25-7-01) attuati presumibilmente con altri attacchi simili a Desert Fox e al bombardamento nell?agosto 1998 della fabbrica El Shifa, che come si scoprì in seguito produceva farmaci, e non armi chimiche. Da allora i giornali hanno scritto che la ricerca americana sulle armi biologiche ?forza? i limiti fissati dal trattato del 1972, e che il Pentagono ha addirittura in programma di produrre un nuovo ceppo di antrace, ufficialmente per sperimentare procedure contro il letale batterio (New York Times, 4-9-01). Ancor prima dell?11 settembre i bombardamenti sull?Iraq erano notevolmente aumentati. Nel febbraio 2001 24 aerei americani e inglesi hanno attaccato installazioni radar irachene, alcune delle quali fuori delle ?no-fly zones?. In agosto e ai primi di settembre ci sono stati almeno altri sei raid progettati in precedenza per indebolire la difesa aerea irachena e facenti parte di un piano complessivo di attacchi multipli del quale un funzionario governativo americano avrebbe detto (al sito Web di news MSNBC, il 14-9-01): ?Colpire i bersagli uno per volta non attira lo stesso tipo di attenzione o reazione. Ci vuole più tempo, ma alla fine l?obiettivo si dovrebbe raggiungere ugualmente.? Ed è certamente vero che alla campagna di bombardamenti non hanno dato molto risalto in America i mezzi di comunicazione, ipnotizzati dallo scandalo Condit (dal nome del deputato democratico Gary Condit, la cui assistente e amante Chandra Levi è sparita senza lasciar traccia). Analisti militari indipendenti come George Friedman dello Stratfor (un servizio informazioni privato) avevano concluso che questo attacco massiccio contro le difese aeree irachene preludeva a un altro bombardamento in grande stile come il Desert Fox del 1998. La cosa appare ancora una volta particolarmente plausibile in un momento in cui i commentatori tentano freneticamente di collegare l?Iraq con bin Laden o di asserire che un simile collegamento non è necessario per giustificare un altro bombardamento di Baghdad (William F. Buckley, National Review, 9-10-01). Laurie Mylroie, un?analista di cui si ricorda un articolo apparso nel 1987 su New Republic in cui si invitavano gli Stati Uniti ad appoggiare Saddam Hussein (“Back Iraq,” 27-4-87), ha fatto il giro dei talk show domenicali e delle pagine op-ed (per esempio, Wall Street Journal, 13-9-01; CNN Crossfire, 27-9-01) per fare pubblicità al suo libro Study of Revenge e sostenere, sulla base dell?analisi discutibile dell?identità di un solo uomo, che c?era l?Iraq dietro l?attentato del 1993 al World Trade Center. La campagna televisiva per il riconoscimento della colpevolezza dell?Iraq ha forse a che vedere con il fatto che quel paese offre autentici bersagli ai bombardieri, a differenza dell?Afghanistan, che è abbondantemente in macerie dopo oltre 20 anni di ingerenza americana, sovietica e di altri paesi. Non pare ci siano piani per un bombardamento immediato dell?Iraq, ma se l?Amministrazione Bush seguirà i consigli di opinionisti falchi come William Kristol e Fred Barnes, non aspettatevi che i giornalisti americani facciano un lavoro migliore di quello svolto finora per spiegare l?effetto delle bombe sul popolo iracheno… e sulla sicurezza degli Stati Uniti. Rahul Mahajan è uno dei leader di Peace Action e del National Network to End the War Against Iraq. Sta per uscire, per i tipi della Monthly Review Press, un suo libro intitolato The New Crusade: America?s War on Terrorism. Il suo indirizzo email è rahul@tao.ca.


traduzione di Cesare Pavone

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Articolo originale: “We Think the Price Is Worth It”


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