Teatro civile

Le rive in rime: così Marco Paolini racconta il Piave

Dopo "VajontS23", Marco Paolini torna a fare teatro di "prevenzione civile". "Mar de Molada" è uno spettacolo itinerante, dalle Dolomiti all'Adriatico, per narrare il Veneto visto dall'acqua, partendo dai fiumi di cui non conosciamo più nemmeno il nome. «È un invito a riappropriarci di un'identità territoriale, a scrivere l'atlante delle rive». In scena anche scienziati e un coro greco formato da cittadini.

di Elisa Cozzarini

I nomi dei fiumi minori intorno al Piave, letti uno dopo l’altro, diventano rime, sonetti, filastrocche. Sono nomi sconosciuti ai più, suonano come una lingua barbara. Di qui parte il nuovo progetto teatrale di Marco Paolini: Mar de Molada, un racconto dello spazio che c’è tra le montagne e Venezia, visto non dalla terra ma dall’acqua. «Dentro un bacino idrografico non ci sono solo i fiumi che abbiamo studiato a scuola, ma una serie di corsi d’acqua minuscoli, che in certi momenti diventano un problema», spiega l’attore e regista. «Questi nomi formano un testo antico, più vecchio di Dante. Eppure nessuno di noi si orienta sui fiumi. Stanno sotto, a fianco, di là dell’argine, al loro posto. Diventano un problema solo se vengono fuori».

Dopo VajontS 23, con Mar de Molada Paolini torna a fare teatro di “prevenzione civile”. Lo fa con un viaggio in quattro spettacoli alla luce del giorno, ciascuno unico e irripetibile, in quattro luoghi, dalla Marmolada all’Adriatico, dal 14 settembre al 5 ottobre. Accanto a Paolini, sul palco ci sono la cantautrice Patrizia Laquidara e il musicista e compositore Giovanni Frison, assieme a un coro greco di narratori popolari. 

Ogni tappa prevede anche un dialogo con scienziati e tecnici, per approfondire argomenti legati alla fragilità del rapporto fra acqua e terra: la climatologa Elisa Palazzi, il Commissario nazionale per la crisi idrica Nicola Dell’Acqua, il geografo Francesco Vallerani, il geologo Emiliano Oddone e l’ingegnere e idrologo Andrea Rinaldo, vincitore dello Stockholm Water Prize 2023. Negli spettacoli, quello con gli esperti è il momento dello stravedo, «il fenomeno che da Venezia e della laguna fa sì che in certe giornate limpide le montagne appaiono vicine, proprio al di là dei palazzi», spiega Paolini. «Ho voluto immaginare che le parole degli scienziati servano a rendere vicine cose che percepiamo lontane, come se non ci riguardassero».

Marco Paolini, Lei parte dall’ignoranza diffusa dei nomi dei corsi d’acqua minori. Ma non trova che anche i fiumi più importanti siano per lo più sconosciuti? Del Piave, “fiume sacro alla Patria”, a parte i cartelli che vediamo attraversando i ponti, cosa sappiamo? Li frequentiamo?

Credo che ognuno di noi abbia dei posti che sono intimi, legati all’acqua, c’è chi li ha sulle rive del mare, chi dei fiumi. Non siamo del tutto inconsapevoli, ma non sappiamo certamente mettere questo rapporto intimo e personale in relazione al bacino in cui ci troviamo. Manchiamo di alcune informazioni fondamentali su come questi elementi sono collegati. La gente non sa i nomi dei fiumi degli altri, ma forse sa il proprio. Ho pensato che scoprire ogni piccolo fiume sia un bel modo di riappropriarsi di un’identità territoriale. Ma i nomi, messi tutti insieme, sono semplicemente evocativi di un’alterità. L’idea di mettere vicino tutti questi nomi, di costruire rime, canzoni, sonetti, è un gioco, un invito a farlo anche per gli spettatori. Noi non costruiremo il poema dei fiumi. Invitiamo artisti, scuole, gruppi di cittadini, a continuare con l’atlante delle rive dopo di noi. È un invito a fare questo esercizio di rive…

Noi non costruiremo il poema dei fiumi. Invitiamo artisti, scuole, gruppi di cittadini, a continuare con l’atlante delle rive dopo di noi. È un invito a fare questo esercizio di rive.

E della sacralità del Piave, cosa rimane, secondo lei?

Non sono molto interessato alla retorica. La sacralità di cui si parla è buona per celebrare ancora, ogni tanto, una liturgia. A me, personalmente, non dispiace del tutto: mi piace cantare la canzone del Piave. Quello che trovo poco interessante è limitarsi a conservare il mito costruito nel 1918 e non essere capaci di costruire noi il mito che serve per affrontare adesso la questione del Piave. Io non vivo di ricordi e le generazioni non possono essere condannate a portare la fiaccola della memoria. Bisogna costruire continuamente, con le parole, con le storie, qualcosa che viva. Che poi sia mito o no, quello è relativo.

Il Piave all’altezza dell’Isola dei Morti, dove nella Grande Guerra persero la vita migliaia di giovani, i “ragazzi del ’99.” Foto di Elisa Cozzarini

Come ha scelto i quattro luoghi in cui si tengono gli spettacoli?

Partiamo dai Serrai di Sottoguda, ai piedi della Marmolada. Lì sei anni fa un piccolo torrente, il Pettorina, ha trascinato via tutto quello che caratterizzava il meraviglioso paesaggio di quella gola. Mar de Molada inizia proprio con questo simbolo della fragilità del luogo in cui viviamo. Il secondo appuntamento è sui grandi prati sotto la Certosa di Vedana, dove il Cordevole sta per buttarsi nel Piave. Poi ci si sposta sull’asta principale del fiume, a monte delle grave del Montello, e infine a Vallevecchia, non lontano dalla foce, l’ultimo pezzo di costa veneta agricola, in cui si può leggere ancora un paesaggio diverso da quello del turismo. Questi quattro luoghi – un affluente piccolissimo, l’affluente più grande, il Piave e il mare – rappresentano quattro ambienti fondamentali per definire il bacino.

Le generazioni non possono essere condannate a portare la fiaccola della memoria. Bisogna costruire continuamente, con le parole e con le storie, qualcosa che viva. Che poi sia mito o no, quello è relativo.

Perché i fiumi fanno paura quando si ingrossano e minacciano di uscire dagli argini (dove li abbiamo chiusi noi) e non quando rimangono a secco? Non dovrebbe spaventare anche un fiume senz’acqua?

È umano prendere paura per un fenomeno improvviso, rapido e fuori dall’ordinario, mentre ci abituiamo al peggio. Il fiume magro, in qualche maniera, dà assuefazione, il che non significa che non sia spaventoso. Bisogna fare uno sforzo per non assecondare la nostra natura, che tende a ridimensionare il pericolo quando non si presenta come una cosa che ti può saltare addosso. Il fiume magro è come una bestia che dorme. Quello in piena è come una bestia che sta appena al di là delle sbarre, cioè gli argini, e senti che potrebbe saltarti addosso e portarti via.

Il fiume magro è come una bestia che dorme. Quello in piena è come una bestia che sta appena al di là delle sbarre, cioè gli argini, e senti che potrebbe saltarti addosso e portarti via.

Riavvicinarsi ai fiumi, metterli in relazione con la nostra esperienza, ci porta a scoprire (o riscoprire) luoghi meravigliosi. Ma ci mostra anche tante brutture, perché i fiumi sono anche discariche, raccolgono scarichi non depurati, sono rifugio per chi sta ai margini e non trova altri posti in cui stare, spazi senza regole… Cosa ha trovato nel suo viaggio?

Il Piave, nel basso corso, non attraversa grandi città, quindi non succede ciò che accade per esempio lungo il Brenta o il Po. Nei grandi centri urbani, davvero il fiume è come una calamita per le vite marginali. Lungo il Piave, invece, trovi un corridoio di natura, una densità di selvatici che scompare appena più in là delle rive, trovi tutto il nostro modello di sviluppo, e ogni tanto una fauna umana, la più variabile del mondo, non entro nei dettagli… Ho trovato spiagge, Maserada Beach come Jesolo, organizzate proprio come al mare, con quello che vende i gelati e tutto il resto. Ma non ho incontrato bambini che giocavano, perché forse non si può più.

Lo scorso 17 giugno, la Ue ha approvato la “Nature Restoration Law”. L’articolo 9 riguarda il ripristino della continuità fluviale e delle funzioni delle piane alluvionali: far rinascere gli ecosistemi di acqua dolce e garantire la sicurezza delle popolazioni sono obiettivi che, da adesso, stanno insieme. In Italia è un tema difficile da affrontare senza arrivare allo scontro. Lei lo ha affrontato?

Sì, ho affrontato la questione delle rivalità. Sta alla base di qualsiasi narrazione sulla risorsa idrica. Cerco, con garbo, di entrare in una stanza dove si litiga.

La foto in apertura di Marco Paolini è dell’agenzia LaPresse

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