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Le radici dell’odio

di Sergio Segio

«Vade retro Salvini» ha titolato in copertina il settimanale “Famiglia cristiana”. È stata una delle più forti reazioni alla quotidiana e virulenta campagna in atto da tempo contro i migranti, i rom e le ONG. Anche il capo dello Stato Sergio Mattarella ha ritenuto, pur in modo meno diretto, di intervenire sulla materia: «L’Italia non può assomigliare al Far West, dove un tale compra un fucile e spara dal balcone colpendo una bambina di un anno, rovinandone la salute e il futuro»; un fatto barbaro che «deve suscitare indignazione», ha aggiunto. Adesioni non particolarmente ampie e sollecite, pur sostenuto da un grande quotidiano e gruppo editoriale, ha suscitato l’appello a rompere il silenzio e a schierarsi da parte dello scrittore Roberto Saviano, che da Salvini è stato querelato.

Oltre e dopo l’eventuale indignazione dei cittadini e gli stentati pronunciamenti degli intellettuali, entrambi al momento non particolarmente incisivi, occorrerebbero però adeguate reazioni politiche. Una delle più ficcanti viene da un altro Paese, dall’isola di Maiorca, dove il 26 luglio il consiglio comunale ha votato una mozione che dichiara il vicepresidente del Consiglio e leader della Lega italiano persona «non grata», «por sus declaraciones xenófobas y racistas, por su papel en la denegación de auxilio a personas en riesgo de muerto, por su rechazo a cumplir con los tratados de Derechos Humanos y por su rechazo al cumplimiento de la legalidad internacional y a las leyes marítimas».

Il microterrorismo a sfondo razziale

Il punto che tuttavia sembra sfuggente è che in questione non sono solo e tanto le dichiarazioni e gli atti dell’attuale ministro dell’Interno, ma la globalità delle politiche riguardo profughi e migranti (e più in generale riguardo i diritti umani), in Italia, in Europa e nel mondo. Anche perché, tanto più nel nuovo millennio e in epoca di globalizzazione, la personalizzazione delle stesse è decisamente semplicistica e insufficiente. Non va certo sottovalutato che il crescendo di atti ostili e violenti contro i migranti in Italia vede una relazione con lo sdoganamento dell’odio che viene da alti scranni politici e dallo stillicidio di quotidiano veleno distillato da anni da alcune reti televisive e altri media (per non dire dei social).

Sdoganamento e stillicidio che, in maniera indiretta quanto si voglia, determinano o legittimano alla fine anche atti di terrorismo, o almeno, per il momento, di microterrorismo, secondo la definizione utilizzata da Luigi Manconi per descrivere la catena di aggressioni a sfondo razziale e a colpi di armi ad aria compressa avvenute in Italia, ben 11 in sette mesi; per non risalire agli avvenimenti, ancor più gravi e di terrorismo vero e proprio, di Macerata del febbraio scorso, che ha scoperchiato un pozzo fetido e che avrebbe dovuto aprire gli occhi e innescare le contromisure. Le di poco successive elezioni hanno invece mostrato come l’odio razzista incontrasse i favori di molti.

Lo stesso Manconi, al tempo dell’uscita di un suo libro sull’argomento (Luigi Manconi, Federica Resta, Non sono razzista, ma – La xenofobia degli italiani e gli imprenditori politici della paura, Feltrinelli, 2017), aveva sostenuto che nella società italiana esisterebbe «un grido d’aiuto e una richiesta di soccorso: aiutatemi a non diventare razzista. Fate in modo che la mia inquietudine nei confronti di un altro – diverso e ignoto – non si traduca in intolleranza, aggressività, violenza». La quotidianità sociale e i dati, per la verità, sembravano e ancor più sembrano oggi raccontare una storia diversa, di razzismo sdoganato e diffuso, anche perché da tempo promana dall’alto.

E voglio però sottolineare: da tempo.

La continuità delle politiche sulle migrazioni

Le politiche dei governi di centrosinistra sono state meno urlate, meno verbalmente violente, ma non dissimili nelle scelte di fondo e persino nelle misure operative. Tranne forse il breve periodo dell’operazione Mare nostrum, istituita durante il governo Letta, a seguito del naufragio di Lampedusa, con quasi 400 migranti morti; un anno dopo la commozione per la strage era bella che esaurita e, vigente il governo Renzi, la missione umanitaria fu chiusa e sostituita da quella Triton di Frontex, finalizzata non più al salvataggio ma al controllo e respingimento. Perciò, da allora, le ONG sono state costrette a supplire nei salvataggi, finendo però per essere bloccate e criminalizzate, prima dal governo Gentiloni e ora da quello giallo-verde.

Anche per questo è fondato il rilievo di quanti in questi mesi hanno affermato esservi continuità tra le politiche di Matteo Salvini riguardo i migranti e l’esternalizzazione in Libia del problema e quelle, precedenti, di Marco Minniti. Molto meno si è ricordato che, a sua volta, Minniti continuava nella strada già aperta e praticata dal IV governo Berlusconi, con l’apporto della Lega, anche allora titolare del ministero dell’Interno con Roberto Maroni. A fine agosto 2008, infatti, Berlusconi e Gheddafi firmavano a Bengasi, sotto la tenda del colonnello, un Trattato di «amicizia, partenariato e cooperazione» tra Italia e Libia che, oltre a riconoscere un risarcimento per l’occupazione coloniale italiana di circa cinque miliardi di dollari e a prevedere investimenti e affari di reciproco vantaggio, prevedeva in cambio la piena collaborazione libica nel contrasto all’immigrazione verso l’Italia. Umberto Bossi, all’epoca ministro alle Riforme e non ancora caduto in disgrazia, commentò entusiasta e rivendicò l’accordo: «La Libia fermerà gli immigrati clandestini invece di mandarli qui, perché da lì che arrivano tutti gli extracomunitari. Se Berlusconi ha firmato l’accordo è anche perché ci ha lavorato sopra Maroni».

Quel Trattato, tuttavia, aveva radici in un precedente “Protocollo per la cooperazione tra l’Italia e la Libia per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina” siglato il 29 dicembre 2007. L’accordo prevedeva, oltre a forniture italiane di strumenti e materiali ai libici, l’invio di sei navi della Guardia di Finanza, tre guardacoste e tre vedette, per operare congiuntamente e con equipaggi misti in acque territoriali libiche al fine di riportare nei porti della Libia i barconi dei migranti intercettati. Nel 2007 vigeva il II governo Prodi. L’accordo fu sottoscritto dal ministro dell’Interno Giuliano Amato. Il suo sottosegretario si chiamava… Marco Minniti.

Non fossimo, insomma, un paese dalla memoria interessatamente corta ci renderemmo conto dell’assoluta continuità nelle politiche di rifiuto, di chiusura di frontiere e porti, nell’innalzamento di muri fisici e di barriere normative. Nel trionfo del disumano.

Prove tecniche di pulizia etnica

La continuità, però, non è solo politica, è culturale: il leitmotiv con il quale Salvini ha motivato sgomberi, ad esempio quello dei Rom dal Camping River, in sostegno di Virginia Raggi e in aperto spregio e contrapposizione con le indicazioni del Comitato europeo per i diritti umani, che aveva intimato di bloccare lo sgombero, è stata il richiamo alla legalità. «Legalità, ordine e rispetto prima di tutto», ha scritto nell’occasione con il solito tweet il ministro dell’Interno. Erano passati solo pochi giorni dal grave ferimento – richiamato da Mattarella – di una bambina rom con un colpo di fucile ad aria compressa da parte di un cittadino romano; che pur individuato è rimasto pressoché anonimo, giacché vi sono casi in cui i media si ricordano di avere una deontologia che imporrebbe riservatezza e garanzie.

Il campo rom sgomberato, peraltro, aveva un tasso alto di scolarizzazione e non aveva mai creato alcun problema, tanto che le associazioni e la Caritas hanno protestato contro la decisione. A motivo dello sfollamento la Giunta capitolina ha sfrontatamente addotto la situazione sanitaria dell’insediamento: come se i ponti, sotto i quali sono ora costretti a dormire uomini, donne e bambini, garantissero migliori condizioni.

I rom, del resto, per bocca del ministro Salvini, sono da considerarsi «parassiti». E si sa che i parassiti vanno eliminati. Affermazione che dovrebbe fare inorridire, se non altro per associazioni che dovrebbero emergere nella memoria, dalla notte della Germania nazista. Ma che soprattutto deve fare reagire. Anche e appunto ritrovando e coltivando memoria e ricavandone giudizi e pratiche per l’oggi. Ad esempio, nessuno di fronte all’attuale politica della ruspa, ha ricordato di quando Walter Veltroni, sindaco di Roma e leader del Partito Democratico, affermava che Roma era la città più sicura del mondo prima che la Romania entrasse nell’Unione Europea. Era il 2007, non un secolo fa.

Razzismo dall’alto, disobbedienza dal basso

Razzismo, ruspe, enfatizzazione securitaria e tolleranza zero non nascono dunque solo oggi. L’odio ha radici lunghe e sviluppi magari lenti ma micidiali: per chi viene colpito, ma per le società nel loro complesso e per il futuro di tutti.

Oggi, però, si stanno diffondendo anche pratiche di solidarietà dal basso, di cui è difficile avere notizia ma che testimoniano di un’altra Europa, di un’altra umanità possibile.

Le vicende della studentessa svedese Elin Ersson che ha bloccato da sola un aereo di linea per impedire il rimpatrio di un profugo afgano, o dei tanti piloti di diverse compagnie aeree che in Germania si sono rifiutati di portare migranti e richiedenti asilo respinti nei Paesi d’origine (tra gennaio e giugno di quest’anno è successo 222 volte), o di Francesca Peirotti, condannata pochi giorni fa a sei mesi di carcere dal tribunale francese di Aix en Provence per aver aiutato a espatriare da Ventimiglia un gruppo di migranti, compreso un neonato, sono solo alcuni degli ultimi episodi che ci dicono di tante singole persone la cui coscienza obbliga a prendere posizione e a disobbedire a leggi ingiuste, prendendosi i rischi conseguenti.

Poi ci sono, anche queste semi-invisibili, le reazioni organizzate, a livello di singoli Paesi e su dimensione utilmente europea, da associazioni e movimenti.

Una di queste è programmata dal 28 luglio al 6 agosto: una settimana di iniziative e mobilitazioni in tutta Europa contro le politiche razziste a danno della comunità rom e sinta, in Italia e non solo; razzismo “dall’alto” e “dal basso”, che si espande a macchia d’olio, come documentano recenti dossier, alimentati dai discorsi d’odio.

Il 28 luglio a Bucarest in Romania un corteo unirà le ambasciate d’Italia e di Ucraina; il 31 luglio in Cechia si terrà una manifestazione davanti all’ambasciata italiana, il 2 agosto si concentreranno le manifestazioni davanti all’ambasciata italiana di Bulgaria, Serbia e Slovacchia. In Italia, invece, Rom e Sinti saranno a Roma in piazza Montecitorio dalle 12 alle 17 e con un presidio alle 12,30 davanti all’ambasciata ucraina. Infine, il 6 agosto le manifestazioni si sposteranno davanti alle ambasciate italiane di Macedonia e Ungheria.

Un’occasione in più per contrastare odio e paura, per collegare le iniziative. E per dire sempre più forte: «Vade retro, razzismo».

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