Economia

Le politiche attive? Sono il nostro mestiere

La cooperazione sociale che si occupa di inserimento lavorativo fa fronte comune sui principali nodi, mentre si divide sull’articolo 14 della legge Biagi.

di Francesco Agresti

Essere riconosciuti come promotori di politiche attive del lavoro, migliorare i rapporti con la pubblica amministrazione, ampliare la definizione dello svantaggio ferma a 15 anni fa. La cooperazione sociale che si occupa di inserimento lavorativo fa fronte comune sui principali nodi, mentre si divide sull?articolo 14 della legge Biagi. Un fallimento per alcuni, ancora pienamente da sperimentare per altri. «La cosa più importante da cui partire», spiega Massimo Giusti, responsabile relazioni sindacali Federsolidarietà, «è il riconoscimento della cooperazione sociale come soggetto portatore di novità nelle politiche attive del lavoro. Oggi al massimo la cooperazione sociale di inserimento lavorativo è considerata parte dei servizi sociali. E invece basta vedere l?esperienza di Fertilità, che ha permesso la creazione di decine di imprese sociali che sanno stare in piedi anche in zone economicamente svantaggiate, per capire come abbia le qualità per essere riconosciuta quale protagonista delle politiche attive del lavoro. La cooperazione sociale deve diventare l?interlocutore principale delle azioni finalizzate a promuovere inserimento lavorativo delle persone svantaggiate». Un riconoscimento meritato ma disatteso da quella amministrazione pubblica cui la cooperazione sociale è legata da una forte dipendenza economica: in media, ogni 100 euro di fatturato delle cooperative sociali di tipo B, 50 vengono da enti locali. «La cooperazione sociale di tipo B», aggiunge Silvia Guazzini, presidente di Mestieri, l?unica agenzia per il lavoro della cooperazione sociale, «si è trovata nel corso degli anni in una posizione sempre più difficile in cui è mancata la volontà politica di valorizzarla». Un rapporto da recuperare secondo Giancarlo Brunato, responsabile della cooperazione di inserimento lavorativo di Legacoopsociali, «partendo dalla piena applicazione dell?articolo 5 della legge 381, che prevede la possibilità per gli enti locali di sottoscrivere convenzioni dirette per l?affidamento di servizi alle coop sociali». «La riduzione di risorse e la normativa sugli appalti», prosegue Brunato, «spinge verso gare al massimo ribasso. Inoltre il limite di 211mila euro previsto per l?affidamento diretto di servizi non garantisce continuità al lavoro delle coop sociali che spesso vengono coinvolte da imprese profit in associazioni temporanee solo perché queste hanno bisogno di garantire formalmente il rispetto di alcune clausole sociali imposte dagli enti pubblici nelle gare di appalto». Preoccupazioni condivise da Giusti secondo cui «gli enti locali dovrebbero tenere conto dei benefici che derivano dall?attività delle coop di tipo B». L?inserimento lavorativo delle persone svantaggiate e la loro integrazione economica e sociale, infatti, fa diminuire la domanda di servizi socio-assistenziali, generando una riduzione dei costi per la pubblica amministrazione. Nuovi svantaggi La legge 381 del 1991 ha individuato un elenco tassativo di condizioni di svantaggio a cui negli ultimi 15 anni se ne sono aggiunte di nuove, che non possono continuare a rimanere escluse dalle misure previste dalla legge. Sulla necessità di rivedere le condizioni di svantaggio convengono sia le due principali associazioni di rappresentanza, Federsolidarietà e Legacooopsociali, che il consorzio Cgm. Per Giusti all?ampliamento delle categorie di beneficiari dovrebbe però corrispondere anche una rimodulazione delle agevolazioni e della fiscalizzazione degli oneri sociali, riconosciute dalla 381. «Un conto è reinserire un laureato che da un anno non trova lavoro, un altro è integrare un disabile psichico. Non credo sia corretto prevedere uguali agevolazioni nella stessa misura per situazioni così diverse». L?articolo contestato Se sulle questioni appena descritte vi è una piena intesa, il fronte della cooperazione sociale si divide sull?articolo 14 del decreto legislativo 276 del 2003. La norma riconosce alle imprese la possibilità di assolvere parzialmente l?obbligo di assumere disabili esternalizzando, in base ad accordi provinciali sottoscritti dalle parti sociali e dagli enti locali, una parte della loro attività produttiva. Una norma che secondo Pietro Barbieri, cooperatore sociale e presidente della Fish, «nasce con un vizio di forma, perché il governo non aveva la delega per legiferare su questo aspetto, e che ha prodotto risultati fallimentari con pochi inserimenti lavorativi andati a buon fine in zone d?Italia dove le condizioni economiche avrebbero ugualmente permesso l?inserimento con altre modalità». «Senza correttivi», conferma Guazzini, «l?articolo 14 non è in grado di produrre risultati significativi, le esternalizzazioni andrebbero concordate con le coop sociali in modo che entrambi possano trarne vantaggio e non siano dettate solo dalle imprese». «Così com?è non va», conferma Brunato, «è una norma che va senz?altro rivista». Di parere opposto Giusti, che invece pensa che l?articolo 14 sia una delle cose da salvare della legge Biagi, «almeno per poterlo pienamente sperimentare. Questa norma permette di avvicinare il mondo delle imprese for profit alla cooperazione sociale. A chi è contro chiedo: cosa propone per mettere in contatto profit e impresa sociale?»


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