Don Giuseppe Bregantini, vescovo di Campobasso, non usa mezzi termini mentre parla all’annuale convegno diocesano di Lucca: “è nella precarietà che nasce la speranza”. Guardiamoci indietro: negli scorsi decenni grandi teologie -nell’approssimazione di definirle così- ispirate alla povertà e alla precarietà della vita hanno animato speranze globali e movimenti rivoluzionari. In loro nome i popoli hanno fatto tremare e cadere le classi dirigenti corrotte di grandi Paesi. Il precariato è la nuova oppressione. “I destini del mondo si maturano in periferia” diceva qualcuno e anche il lavoro ha le sue periferie.
Monsignor Bregantini racconta Francesco: “questo Papa è grande perché ha saputo farsi piccolo con i piccoli”. Associa alle dita della mano i luoghi su cui Francesco ha scelto di camminare in Italia: Lampedusa, Cagliari, Assisi, Cassano all’Ionio, Campobasso. Luoghi che molti “rivoluzionari contro tutti e tutto” nemmeno saprebbero interpretare se non con categorie politiche e ideologiche ormai logore.
Racconta Bregantini di quei preti che hanno deciso di rinunciare al sostentamento del clero per farsi precari fra i precari. “Sei capace di vivere come loro se sei capace di stare con loro”. “La Chiesa -aggiunge provocando un moto di stupore nella Basilica di San Frediano- sarà libera se sarà povera. Oggi se venisse San Francesco d’Assisi abbraccerebbe non più il lebbroso, ma il ragazzo precario”. Non sappiamo se sia così, se per esempio il ragazzo di famiglia benestante possa essere definito precario, ma in fondo anche Francesco lo era o lo volle essere, no?
Ma il precariato non ha età e non è nemmeno così direttamente definibile. Il Censis, nel secondo appuntamento del mese di sociale, ci ricorda che “c’è un conflitto latente fra le generazioni sul mercato del lavoro”. Oltre a giovani c’è un esubero che sgorga in ogni età: prepensionati, esodati, staffettati. È il “precariato di fine carriera”, un boccone amarissimo da digerire.
E la categoria “precariato” è ormai più un’etichetta sociale onnicomprensiva che una situazione lavorativa di un certo tipo: fino a qualche anno fa precario era chi aveva un lavoro con la data di scadenza segnata sulla “confezione”, oggi nel linguaggio comune si definisce precaria ogni situazione che può portare a lavori non stabili o non pagati, oppure sottopagati, ma anche alla disoccupazione o ad altre situazioni simili accomunate dal disagio economico che rende indegna la vita.
È una categoria, in verità, che spiega poco della crisi, perché riduce ad un unicum una pluralità di forze che demoliscono la dignità del lavoro e di conseguenza delle persone. Forse sarebbe meglio chiamarle “periferie del lavoro”, dove aumenta, insieme alla rassegnazione e alla disperazione, anche la speranza di creare reddito, benessere e dignità con idee innovative. Perché tutte le situazioni di “povertà” contengono un seme di speranza da coltivare. E coltivarle significa curare, far crescere, portare vitalità. Dovrebbe essere anche un compito di quello che stancamente continuiamo a definire terzo settore (ciò che non è Stato e non è Mercato). Il quale spesso invece rivolge comodamente le sue attenzioni ai centri logorati da conservazione invece che alle periferie foriere di cambiamenti.
Bisognerebbe fare come Francesco, camminare su strade sconosciute e con occhi nuovi.
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