Salute

Le parole per dirlo

Sarebbe piaciuta a Socrate, la dottoressa Aite. Perché invece di far nascere bambini fa nascere parole. Sono le parole delle mamme e dei papà che hanno bimbi con malformazioni.

di Sara De Carli

Sarebbe piaciuta a Socrate, la dottoressa Aite. Perché invece di far nascere bambini fa nascere parole. Sono le parole delle mamme e dei papà che hanno bimbi con malformazioni. Scoperte in gravidanza o al momento del parto; alcune risolvibili, altre che portano alla morte. Sono le parole più difficili da pronunciare. La Aite, psicoterapeuta della Gestalt, lavora nel dipartimento di neonatologia medica e chirurgica del Bambino Gesù di Roma: quella di Giulia è solo una delle centodieci storie che ha raccolto. In questi anni, Lucia ha visto migliaia di bambini: vengono operati 400 bambini all?anno, di norma a sei giorni di vita, alcuni nati da solo un?ora. Ha visto tanta sofferenza e anche la morte (in media 10 bambini all?anno non ce la fanno), e soprattutto l?angoscia di moltissimi genitori: per quella poteva fare qualcosa.

Vita: Qual è il ruolo di una psicologa nell?équipe di diagnosi prenatale?
Lucia Aite: La comunicazione della diagnosi di malformazione del bambino ha un grosso impatto emozionale. Spesso però gli operatori sanitari mettono in evidenza la dimensione dell?azione più che quella del pensiero, in se stessi e nei genitori. Ma continuare a pensare è fondamentale, e per farlo c?è bisogno di qualcuno che ponga attenzione solo a questa dimensione: è il ruolo dello psicologo.

Vita: Perché lei fa raccontare ai genitori la loro storia? Cosa offre questo metodo?
Aite: Il valore terapeutico del fare autobiografia è noto, ma non la si è mai usata in ambito neonatologico. Raccontare dà la possibilità di guardare la propria esperienza mettendo una distanza. Questo consente di unificare in una visione d?insieme ciò che prima era frammentato e privo di senso. Davanti alle emozioni forti le cose tendono a spezzarsi, e la prima difficoltà è collegarle.

Vita: C?è un rituale per questo raccontare?
Aite: Faccio l?invito dopo che il bambino ha subìto l?intervento chirurgico: non lo faccio a tutti i genitori, solo a quelli il cui bambino ha una degenza di più di un mese o che hanno percorsi difficili. Di solito ci mettiamo accanto alla culla del bambino, il genitore parla e io scrivo. In questi anni ho raccolto tante storie: di 80 madri e 30 padri. Diversi genitori l?hanno fatto da soli, dopo essere tornati a casa con il loro bambino; una sola madre è riuscita a scrivere la storia da sola, dopo la morte del figlio. È la mamma di Luca, la cui testimonianza chiude il libro.

Vita: Quali sono i bisogni dei genitori?
Aite: Se la diagnosi è fatta durante la gravidanza, il primo è quello di trovare qualcuno che sia in grado di aiutarli a comprendere. C?è uno stato di estrema confusione, spesso bisogna decidere in poco tempo se proseguire o no con la gravidanza: ci si sente in un mondo sconosciuto, dove tutti parlano una lingua straniera. È importante avere qualcuno che aiuti a prendere confidenza con questa realtà, che tratteggi uno scenario molto concreto: le esperienze che vivranno in ospedale, quali potranno essere i problemi del bambino e quale la sua qualità di vita? Poi c?è il bisogno di non sentirsi soli. Trovare interlocutori non è facile, perché magari il ginecologo pur conoscendo le anomalie congenite non ha esperienza del decorso post natale di questi bambini.

Vita: C?è differenza tra una diagnosi fatta in gravidanza e una fatta dopo il parto?
Aite: Il percorso è lo stesso, ma con tempi diversi. Inizialmente c?è una fase di negazione dell?evento, che si traduce in un tagliare i rapporti con il bambino: non gli si parla più, non si accarezza più la pancia, non si comprano i vestitini. Poi la rabbia e il senso di colpa, il dolore, la sensazione di inadeguatezza. Alla fine c?è un adattamento fisiologico. La differenza è che i genitori che lo sanno durante la gravidanza si possono preparare: conoscono il reparto e gli operatori prima che il bambino venga ricoverato. Questo fa sì che i genitori, quando arrivano qui, sono più capaci di entrare in relazione con il figlio e lo fanno in tempi più rapidi rispetto ai genitori che si trovano di fronte improvvisamente alla notizia. Questi genitori al momento del parto vivono lo shock che gli altri hanno già superato; in quel momento è impossibile avere le forze per stabilire anche un contatto col bambino.

Vita: Quanto incide il modo in cui la comunicazione della diagnosi è fatta sulla percezione che i genitori hanno del figlio e sul rapporto che stabiliscono con lui?
Aite: Gli operatori hanno una responsabilità grande, perché le parole con cui viene data la prima comunicazione della diagnosi rimangono impresse nella mente dei genitori. Abbiamo genitori a cui è stato detto di interrompere la gravidanza per una malformazione terribile, mentre in realtà è una malformazione da cui il bambino può guarire completamente. Quelle prime parole determinano un livello d?ansia che non riusciamo più a ridurre.

Vita: C?è uno stile che vuole suggerire?
Aite: Aiutare i genitori a visualizzare la patologia e ciò che essa comporterà. Avere un tempo da dedicare al colloquio con i genitori, descrivere l?esperienza piuttosto che dare numeri e statistiche. Fare corsi di formazione sulla comunicazione in ambito medico, frequentare i gruppi Balint. Libri? Forse Comunicare la diagnosi grave, ma contano di più le esperienze. Vita: Quali interventi consentirebbero di migliorare il servizio ai genitori? Aite: La formazione capillare di ginecologi, ecografisti e pediatri: sono malattie relativamente rare, in pochi ne hanno esperienza diretta. Poi c?è un grosso problema sul follow up, perché per i bambini a cui restano deficit cronici c?è pochissimo sostegno. Come mai? È una realtà che non si vuole guardare, una sofferenza talmente grande che non la si affronta, né a livello di battaglie culturali e legislative né di visibilità sociale. Eppure è una realtà che cresce di pari passo alla nostra capacità di assistenza: non si può far finta di nulla.

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