Famiglia

Le parole che cambiano/ Identit

Oggi è quasi un tabù, perché è emblema della orrenda metafisica forte. Ma per Haim Baharier l’identità debole è una contraddizione in termini. E parla di una terza chance: l’identità claudicante

di Sara De Carli

Identità, s.f. 1. Rapporto di un?entità con un?altra, tale per cui l?una è l?altra. 2. Uguaglianza che sussiste qualunque sia il valore delle variabili che compaiono in essa. 3. Estens. Consapevolezza di sé come individuo. Dal latino idem, medesimo. (dal Dizionario italiano Sabatini Colletti) Sarà perché lui è ebreo, e Israele nasce proprio così, quando Giacobbe al fiume Yaboq esce zoppicante dalla lotta con l?angelo, ma per Baharier l?identità oggi deve declinarsi così: non come identità debole ma come «identità selenica», che incarna la debolezza e l?incompiutezza, cioè la parte universale dell?essere uomo. Critica il mito del dialogo, «sclerotizzante», preferisce il muro al ponte e dice che il sincretismo è «un progetto fallito di prevaricazione». Viaggio alternativo nella questione contemporanea per eccellenza. Vita: È ancora possibile parlare di identità o in ogni caso ci si addentra in un labirinto che è un pre-conflitto? Haim Baharier: Nell?ultimo decennio siamo entrati in un nuovo mito identitario, quello dell?identità debole. Un?espressione che non capisco, perché mi sembra contrapporsi al concetto stesso di identità. L?identità è differenziazione, individuazione, quindi non può essere debole. Però l?aggettivo ha un suo fascino, e se guardo attraverso il prisma della mia identità, quella ebraica, suggerirei di usare non la parola ?debole?, ma ?claudicante?: identità claudicante. Quella ebraica è un?identità claudicante, cioè un approccio all?identità umana sic et simpliciter con la consapevolezza di una diminuzione dell?essere. L?essere esistente – non quello ideale – in quanto reale è incompleto, finito, ?più piccolo di?. Mi spiego con un passo della Torah. La Genesi dice che «il Creatore creò due grandi luminari», e nello stesso versetto dice: «Il grande luminare per governare e il piccolo luminare per governare la notte, e le stelle». Il commento del Talmud ovviamente si blocca su questa contraddizione, e dice che in mezzo è successo qualcosa. Vita: Che cosa? Baharier: Uno dei due grandi luminari ha interpellato il Creatore dicendo: «Due sovrani per una corona non vanno bene». E il Creatore disse: «Hai ragione! Vai e rimpicciolisciti». Il luminare che aveva parlato – che poi sarebbe diventato la luna – replica: «Come! Ho detto una cosa giusta, e devo rimpicciolirmi io». E il Creatore: «Oddio, hai ragione». E allora prova a consolarla. Per esempio le dice che piccolo è bello, però è una magra consolazione. E avanti così. Ma la luna non si consola. Alla fine il Creatore si arrende, e inventa questa cosa: a ogni luna nuova il popolo di Israele farà un sacrificio per espiare le colpe di cui non sa niente, talmente tumulate dentro di noi che non appaiono. Ma in realtà è un sacrificio a nome del Creatore: è lui che espia la colpa di aver creato, perché creare è creare più piccolo. Io credo che questo guidi il concetto di identità claudicante, claudicante nel senso di ?rimpicciolita?, non di ?diminuita?. Perché diminuita sarebbe diminuire in dignità, mentre rimpicciolita implica la consapevolezza dell?incompiutezza, che è ciò che consente al dialogo di stabilirsi. Questo mi fa vedere diversamente il mito dell?identità debole: un?identità che incarna la debolezza, che è diverso. Vita: L?identità claudicante è l?identità di Israele o può essere modello anche per altre identità? Baharier: A me sembra che il termine stesso di identità sia incompleto: bisogna parlare di percorso identitario. Se noi capiamo che l?identità non esiste, ed esiste invece un percorso identitario che cerca una definizione sempre più chiara, profonda e dettagliata di un?identità, allora capiamo che l?identità claudicante è un modo di assumere l?identità umana. Dunque sarebbe interessante per qualsiasi identità confrontarsi con questo percorso, perché il claudicare non è lo specifico dell?identità ebraica, ma la parte universale di questa identità. L?identità claudicante è essere coscienti della necessità di verificare ogni raggiungimento con gli altri, verificare se è condivisibile, e contemplare la parte universale del proprio percorso. Si può fare solo nel confronto con l?altro da sé. Vita: Una possibilità per la convivenza sembra cercare ciò che accomuna e tagliare i diversi passati. Funziona? Baharier: Prendiamo l?ecumenismo, forma sottile di sincretismo: in realtà non sono che un bel modo per fare prevaricazione. A guardar bene il sincretismo quando si ha? Quando il progetto prevaricatore non è riuscito. Mi sembra utile invece ragionare a partire dalla parola ebraica emet, verità. La parola graficamente è interessante, è composta da tre lettere: la prima è la prima lettera dell?alfabeto, l?ultima è l?ultima lettera dell?alfabeto e la lettera mediana è proprio la lettera mediana dell?alfabeto. Questo cosa significa? Che la verità è lo spettro concettuale più ampio, mediato: quindi una verità plurale. Anzi, non è verità se non è plurale. Infatti, se noi togliamo la prima lettera – cioè l?inizio, l?universale che precede la separazione delle coppie concettuali e identitarie – emet diventa met, cioè morte. Togliere l?universalità e la pluralità della verità è mortale alla verità stessa. E come vede universalità e pluralità non sono in alternativa… Vita: Un?altra formula ricorrente è quella dell?identità narrativa, che si costituisce nell?incontro con l?altro… Baharier: Trovo che oggi con l?incontro con l?altro ci si gargarizzi molto. L?incontro, il volto… è affascinante, ma è come l?albero che impedisce di vedere la foresta e sclerotizza lo sguardo. Come il mito dell?ebreo errante: qualcuno avrà mai detto che l?ebreo non è errante, ma che l?hanno reso errante? No. Siamo noi stessi ebrei, con molta compiacenza, ad alimentare questo mito, perché essere errante è moderno, fascinoso. Identità errante, identità narrante? non mi piace. Come l?ermeneutica e i suoi livelli vivono perché sono simultanei, così qualsiasi narrazione dell?ebraismo deve aiutarmi a vivere, oppure non è vera. E aiutando me a vivere, aiuta l?essere umano, che io incarno. Con queste cose si fanno bei pezzi di teatro, ma ho l?impressione che sia un passare vicino alle domande. È una risposta anticipata. Vita: Invece come lasciarsi interrogare veramente dai problemi della convivenza? Baharier: Le rispondo con una battuta di Israel Salant, un maestro moralista dell?Ottocento: «I tuoi bisogni materiali sono le mie necessità spirituali». Io non so se nel deserto gli ebrei si sarebbero riconosciuti nel mito dell?ebreo errante. Il problema era trovare l?acqua, mangiare, camminare sotto il sole? Io credo che Mosè si preoccupasse più della sopravvivenza che della narrazione, e per questo nella Torah ci sono le mitzvà, i precetti, anche se precetti è sbagliatissimo: 613 figure che scaturiscono dall?identità narrativa per permettere a questa identità di sopravvivere. Vita: C?è anche una regola concreta per un dialogo autentico tra diverse identità? Baharier: «Faremo ed ascolteremo» dice il popolo di Israele ai piedi del Sinai. Si può dire che è un atteggiamento impulsivo, che sarebbe più corretto dire ascolteremo e poi eventualmente faremo, ma non è così. Il fare che precede l?ascolto è dare la possibilità all?ascolto di essere reale, concreto. Io ascolto soltanto facendo. Il problema è che troppo spesso oggi la parola diventa magicamente cosa. È un inganno terrificante, perché la parola umana non è creativa. è solo nell?ascolto preceduto dal fare che davvero rispetto il mio interlocutore. Vita: Un esempio? Baharier: Sostituire la tolleranza con la responsabilità: il muro che hanno costruito a Gerusalemme. So che la mia è una posizione controcorrente, ma quel muro ha consentito di salvare vite e di ascoltare poi le voci di queste vite salvate. Il Papa allora aveva detto: «Ci vogliono ponti, non muri». Per me invece il muro è ciò che consente di comunicare. Magari fossimo costruttori di muri. Il muro è importante, perché senza il muro non c?è neanche la porta. La Torah dice che una succah, la capanna simbolo della precarietà, se non ha un muro tale da consentire una porta non è valida. Tutto il valore del muro è che apre alla porta. Avere la percezione della propria identità è il modo per dialogare. Vita: Qual è il ruolo delle religioni in tutto questo? Baharier: Sarei tentato di dire che sono l?ostacolo principale al cammino identitario. Prendiamo la messianità. Noi siamo reduci da grandi messianesimi, cristiano, comunista, cinese… E poi c?è il Messia ebraico, che sta ai margini perché non è arrivato. Il Talmud dice che il Messia giunge per inavvertenza, quando tutti avranno disperato della sua venuta. Il Messia arriva quando ti convinci che puoi farcela senza di lui: questa è fede nelle capacità dell?uomo di costruire un mondo che possa ospitare tutti. È bellissimo. La messianità è nelle categorie del protratto e finché la teniamo lì, staremo bene. Chi è Chi è Haim Baharier, il rabbi dei manager Haim Baharier è nato a Parigi nel 1947. Matematico e psicanalista, studioso di ermeneutica biblica e pensiero ebraico, è stato anche allievo del filosofo Emmanuel Lévinas. A Milano ha fondato un centro di formazione manageriale, il Centro Binah: percorsi strutturati sull?approccio ermeneutico, che lavorano in particolare sulla precarietà e l?elaborazione della conflittualità. Con la moglie si occupa dello sviluppo delle abilità cognitive anche con soggetti in situazione di deficit. Il suo motto è: «Imparare le allungatoie e ignorare le scorciatoie».


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