Formazione

Le otto tribù di Roma

Rom,Sinti,Camminanti e zingari:nella capitale eterna,dal centro alla periferia cresce e si allarga l'altra metropoli,quella abusiva dei miserabili.

di Barbara Romano

Ai margini della metropoli del Giubileo si estende l’«altra città». La Roma dei miserabili: improvvisata, abusiva, clandestina, irregolare. La «città di sotto» l’avrebbe chiamata Italo Calvino. Ma questa, la favela capitolina, non è invisibile né immaginaria. Tutti conoscono il Casilino 700, la baraccopoli della vergogna nel cuore della città dove ogni anno muore un bimbo. Ma il popolo degli accampati, Rom, Sinti, Camminanti, e tutti i reduci della guerra e della pace, pullula un po’ ovunque, dal centro alla periferia, nei 48 campi sparsi a macchia d’olio su tutto il territorio urbano. Da Tor di Quinto al Foro Boario, da Testaccio al Villaggio Olimpico, da San Lorenzo a San Basilio, da Centocelle all’Arco di Travertino, da Monte Mario sull’Aurelia a Vicolo Savini, a via Monte Amiata, all’Acqua Vergine, al Laurentino… Persino ai Parioli. Un popolo composto soprattutto di stranieri, cui non arriva una lira dei 1800 miliardi che il Comune di Roma ha ottenuto dal Governo per il Giubileo. Per il 90% bosniaci, alcuni dei quali sfollati dalla guerra. Molti, presenti già prima del conflitto. E ancora, rumeni, macedoni, magrebini, etiopi, senegalesi, khorakané, kalderasha, dasikhané… A Colle Oppio • per esempio, c’è una comunità di 200 curdi, in pianta stabile già da mesi. Hanno chiesto alla questura il riconoscimento dello status di profughi. In attesa di risposta, si sono rifatti una vita intorno alla mensa del Comune gestita dalla Caritas. Il Lungotevere poi è una vera e propria città nella città, con tanto di circoscrizioni suddivise in base alle etnie, spesso in conflitto tra di loro. Sono i russi e i polacchi a contendersi la sponda destra, in baracche, a volte in grotte. Tutto è buio in quelle che si infilano nella scarpata lungo la via Flaminia • dove aveva trovato rifugio un gruppo di polacchi, fino a quando non li ha scovati la polizia: grotte, rese «vivibili» con pagliericcio, cartone e stracci vecchi. Ma è dal Rione Monti • (la famigerata “Suburra”) che comincia la storia dei «senza tetto» nel quale gli zingari, mimetizzandosi, riuscirono a sopravvivere al bando del 21 dicembre 1557, che ne sanciva di fatto l’espulsione. Un’odissea che è continuata fino agli anni ’30, quando si insediarono stabilmente al Tuscolano • con delle famiglie provenienti da Abruzzo e Ciociaria, nella zona Mandrione, un vero toponimo per un gruppo zingaro dedito all’allevamento dei cavalli, oggi però ridotto alla chiromanzia e alla questua. La baraccopoli del Mandrione è anche la “casa” dei Rom Napoletani: residence comunali per i più fortunati, tende e roulotte per la maggior parte di loro che, una volta finissimi fabbri, oggi si improvvisano cartolai ai semafori. I Camminanti Siciliani stanziati a Monte Mario • zona Quartaccio, sono gli unici a praticare ancora l’antica economia nomade degli arrotini. Spesso sono provvedimenti della forza pubblica a imporre il divieto sui loro antichi mestieri, come nel caso dei Rom Khorakhanè (del Montenegro), tra i più creativi artigiani del rame e dell’ottone. Grandi circensi in Jugoslavia, i Rom Rudari a Roma vivono, al Collaltino e al Casilino 23 • della vendita seriale di fiori. I musici questuanti delle “band” serali al centro storico sono spesso Rom Rumeni, attualmente al gradino più basso della “gerarchia” dell’emarginazione zingara, insieme ai Rom Kalderasha e ai Sinti Giostrai, i pionieri delle baraccopoli romane, ancora presenti a Casal Bruciato •e a San Basilio. •Gli zingari nella capitale sono in tutto circa 7000, anche se il Comune ne ha censiti soltanto 5467. Altri ne stanno arrivando in fuga dal Kosovo. L’«altra città», quasi tutta abusiva, spunta qua e là, ovunque ci sia uno spiazzo sufficiente ad installare un nucleo di roulotte con annessa baracca a mo’ di veranda: una fabbrica del riciclo che cresce sugli avanzi della «città di sopra». Il Comune di Roma punta all’eliminazione definitiva di tutti i campi abusivi. Ma è come rincorrere dune. Un campo smantellato mesi fa sulla Casilina come Acquaverde, ad esempio, oggi c’è di nuovo: rimesso in vita dall’arrivo di altri zingari da Torino. Dei 48 insediamenti irregolari ne sono già stati sgomberati 16 dal 1995, e le persone sono state ridistribuite in 6 campi attrezzati e 2 semi attrezzati, per una spesa complessiva di un miliardo. Non è che l’inizio di una più vasta opera di bonifica per la quale sono stati preventivati ben 200 miliardi. L’obiettivo è quello di ripartire gli zingari stanziali in tanti piccoli insediamenti composti da poche famiglie etnicamente compatibili e inserite nel tessuto socio-economico cittadino. Ma la situazione è “magmatica”, difficile da gestire per la sua labilità. Le stesse forze dell’ordine, accusate dall’amministrazione comunale di scarsa collaborazione, sono invece i migliori alleati della Caritas: «Sono quasi sempre loro ad accompagnare da noi i “senza tetto”» ribatte Salvatore Geraci, responsabile del Centro medico mobile, che ribadisce la necessità di una regia unica tra Asl, ospedali e policlinici universitari che a Roma sono molto scoordinati. «Per i nomadi, tutti gli investimenti pubblici messi in campo fino a oggi si sono rivelati inefficaci», commenta Geraci, «perché è sbagliato l’approccio che non tiene conto delle loro reali esigenze e preferisce considerarli soggetti di un intervento da subire piuttosto che renderli protagonisti di un consapevole inserimento nella società». Il fatto è che nessuno li vuole. Requisito fondamentale di un campo-nomadi in regola, non a caso, è il suo distacco minimo dalle case. I residenti non sentono ragioni. Not in my backyard, fuori dal mio territorio. Il dramma dell’impatto sociale sovrasta infatti ogni altro problema logistico per l’ente pubblico. «Il punto è che per quasi tutti oggi quello dello zingaro è lo stereotipo del cattivo», commenta il presidente dell’Arg (Associazione per l’amicizia tra roma e gagè), Dragan Trajkovic, che chiede «abitazione, regolarizzazione, lavoro», ma soprattutto integrazione per la sua gente che, dice, vuole dimostrare che esiste la possibilità di una convivenza civile. «Io me la sento addosso questa emarginazione, come una condanna collettiva, anche se vivo in una casa e non vengo considerato uno zingaro», dice Trajkovic. «Ma mi basta pensare a mio fratello, che abita in un campo ed è guardato a vista pur non avendo precedenti penali». I rom vanno accettati perché non sono più nomadi dagli anni ’40: «In Jugoslavia, per esempio, vivono già perfettamente integrati nelle città», ribadisce il segretario nazionale di Opera nomadi, Massimo Converso, che rimprovera alle amministrazioni italiane, in primis quella romana, di «averli voluti concentrare in grandi insediamenti urbani, facendo della separatezza un valore culturale». La «politica della casa» è la sua formula per «un’integrazione stabile ma controllata nella grande città che porti allo scoperto il popolo dell’ombra». Che vuol dire: «Nuovi villaggi e abitazioni vere e proprie, perché sono tutti nati e cresciuti in casa e non devono certo imparare a farlo oggi».


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