Non profit

Le onlus di opzione. Un paradosso italiano

Fin dalla sua prima comparsa nella Finanziaria per il 2006, il 5 per mille, voluto da Giulio Tremonti, ha ottenuto uno straordinario successo, con un’adesione dei contribuenti superiore a ogni aspettativa

di Redazione

È stata un’adesione convinta e responsabile (che ha indicato nel non profit il settore altamente preferito): per la specifica destinazione infatti non basta una firma, occorre indicare il codice fiscale dell’ente che si vuole premiare, essersi informati sulla sua attività, ecc. Si è trattato di un onere che è stato accettato di buon conto: davvero aveva ragione Einaudi quando scriveva che gli italiani «vogliono sapere perché pagano le imposte». Il meccanismo ha introdotto una forma di democrazia fiscale fondata sulla libertà di scelta dei contribuenti: la spesa efficiente è stata premiata, e quella inefficiente tagliata in base a decisioni assunte dal basso; dai cittadini prima che dalla politica. Ha permesso al cittadino di tornare simbolicamente “padrone” di una (piccola) parte delle imposte e di superare la logica delle destinazioni a pioggia, tanto cara a una certa ideologia politica spesso solo perché vi alimenta le proprie clientele elettorali e relative rendite e inefficienze. Invece, il 5 per mille ha favorito anche lo sviluppo della  accountability , cioè quella “resa del conto” che è tanto rara in Italia, perché l’ente che ne beneficia, se vuole essere nuovamente scelto l’anno successivo, ha interesse a dimostrare come ha speso le risorse ricevute. Per il 5 per mille, infatti, il contribuente “vota” ogni anno.

Per questi motivi si può sostenere che quello del 5 per mille è un paradigma democratico che merita di essere implementato. Tuttavia nella scorsa legislatura questo paradigma non ha avuto vita facile. Se da un lato non è stato soppresso, nonostante costituisse un’eredità della precedente maggioranza, dall’altro ha subito diversi boicottaggi, sia a livello politico che a livello amministrativo. A livello politico attraverso la previsione di un tetto massimo, che di fatto ha corrotto con l’ambiguità la trasparenza originaria del meccanismo: se si stabilisce un tetto il contribuente non destina più il 5, ma il 2,5 o il 3 per mille. Inoltre, attraverso l’estensione dei possibili destinatari senza disciplinare i criteri di identificazione (fondazioni culturali) e senza chiarezza sulle ragioni di inclusione (associazioni sportive dilettantistiche) sono raddoppiati gli iscritti nell’elenco dei potenziali beneficiari e il rischio di una polverizzazione o di un ingolfamento del meccanismo non è irrilevante.

A livello amministrativo è stata infiltrata sabbia negli ingranaggi esasperando i controlli con interpretazioni vessatorie delle normative, introducendo una disciplina giacobina della rendicontazione, frapponendo ostacoli alle erogazioni del 5 per mille. È inaccettabile che, a distanza di due anni dalle destinazioni, gli enti non abbiano ancora ricevuto quelle risorse che i cittadini (si badi bene: i cittadini e non lo Stato, come ha chiarito la Corte costituzionale) hanno loro assegnato.

La vicenda del 5 per mille è quindi doppiamente significativa: da un lato esprime il gradimento popolare verso meccanismi di sussidiarietà fiscale che favoriscono la trasparenza e la resa del conto; dall’altro dice della resistenza di certi apparati verso queste forme nuove di democrazia. Nella nuova legislatura il 5 per mille merita non solo di essere stabilizzato – e su questo, grazie anche all’Intergruppo per la Sussidiarietà, esiste un accordo bipartisan – ma anche di essere implementato, qualitativamente e quantitativamente, introducendo gli accorgimenti necessari a rendere più democratico e semplice il suo funzionamento. Il suo paradigma, che è quello della sussidiarietà fiscale orizzontale, può rappresentare un punto di riferimento anche per altre riforme, ad esempio quella del federalismo fiscale, componendo in una sintesi virtuosa l’autonomia locale e quella sociale. Il tutto nel segno della libertà di scelta dei cittadini.

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