Professioni

Le nuove richieste al lavoro: «Non voglio più soldi, desidero più tempo»

La richiesta di tempo da parte dei lavoratori è una crescente tendenza nel mondo del lavoro. Enel e Unicredit prevedono già la conversione del premio di risultato in ore aggiuntive di permesso. Altre aziende stanno sperimentano la settimana corta. Il dibattito è caldo. Resta sullo sfondo un tema spinoso: come gestire quel tempo libero e liberato dal lavoro? Con un telefono sempre collegato 24 ore su 24, sette giorni su sette, 365 giorni all’anno, sapremmo veramente “staccare”?

di Sabina Pignataro

La richiesta di tempo da parte dei lavoratori è una crescente tendenza che emerge chiaramente anche dai contratti collettivi aziendali di importanti aziende di diversi settori economici come Luxottica, Lamborghini, Intesa San Paolo, Unicredit.
Non soltanto gli accordi sono volti alla riduzione dell’orario di lavoro e/o all’incremento delle ore di permesso connesse a particolari eventi, si sta diffondendo anche la possibilità di avere a disposizione permessi aggiuntivi (a scelta del lavoratore) attraverso la conversione del premio di risultato in ore aggiuntive di permesso. Esempi di questo tipo si trovano nell’accordo Enel del 5 luglio 2023 e nell’accordo UniCredit del 13 febbraio 2024.

Nell’accordo Unicredit è confermata la possibilità, risalente all’accordo del 13 aprile 2018, di conversione del premio di produttività 2023 in tempo, ossia in “welfare days”, nel limite della capienza dell’importo del premio e in ogni caso per un massimo di 5 giorni, a condizione di un residuo ferie relativo agli anni precedenti uguale o inferiore a 5 giorni al 31 gennaio 2024.

Nel caso di Enel, è prevista la possibilità di convertire quote del premio di risultato in una o più giornate intere di permesso aggiuntivo fino a 5 giorni, da utilizzare entro il 31 dicembre dell’anno di erogazione del premio.

Bilanciamento tra vita privata e lavorativa

«La conversione del premio di risultato in permessi non può godere dell’esenzione totale da imposizione fiscale e contributiva», spiega Silvia Spattini, ricercatrice Adapt. «Eppure questa possibilità potrebbe essere di particolare valore per i lavoratori che abbiano necessità o interesse a usufruire di uno strumento aggiuntivo di bilanciamento tra vita privata e lavorativa».

La questione della riduzione dei tempi di lavoro è ultimamente stata posta al centro di diversi rinnovi contrattuali.
«Nel rinnovo del contratto aziendale di Lamborghini sono stati previsti, in via sperimentale, nuovi modelli di orario di lavoro e di turnazione che, a parità di retribuzione, permettono l’alternanza tra settimane di quattro giorni e settimane di cinque», spiega Francesco Alifano, Assegnista di ricerca Università di Modena e Reggio Emilia e ADAPT Fellow. «Similmente, in Luxottica il nuovo contratto aziendale prevede la sperimentazione, su base volontaria, della riduzione dell’orario per venti settimane da 40 a 32 ore, distribuite in quattro giornate lavorative, dal lunedì al giovedì, di otto ore, lasciando quindi ai lavoratori venti venerdì liberi all’anno. Anche in questo caso la riduzione avviene a retribuzione invariata, dal momento che cinque venerdì sono scalati dal monte ore dei permessi retribuiti del lavoratore, mentre quindici sono a carico dell’azienda». Parzialmente diverso il caso dell’accordo stipulato in Intesa San Paolo. Qui i lavoratori possono richiedere che la prestazione di lavoro sia articolata secondo il modello della. “settimana corta”, ossia un modello in cui l’orario di lavoro settimanale è distribuito su quattro giornate lavorative da nove ore, portando, a parità di retribuzione, la durata settimanale della prestazione dalle 37 ore e 30 minuti previste dal Ccnl del settore credito a 36 ore.

Il sogno delle 15 ore. Keynes aveva torto?

Nel 1930 l’economista inglese John Maynard Keynes predisse che nel giro di 100 anni l’evoluzione delle tecnologie e l’aumento della produttività ci avrebbero consentito di lavorare non più di 15 ore alla settimana. Al momento, l’idea è quanto di più lontano si possa immaginare: secondo l’agenzia europea Eurofound, infatti, nonostante i radicali cambiamenti tecnologici (in quasi tutti gli aspetti della nostra vita), la giornata lavorativa di 8 ore definisce ancora ampiamente la vita lavorativa di quasi tutti gli europei (il 10% dei cittadini nell’UE lavora addirittura più di 48 ore settimanali).

«Rileggere oggi Possibilità economiche per i nostri nipoti (il citato scritto di Keynes) è essenziale per immaginare un ruolo diverso del tempo di lavoro nell’organizzazione del lavoro e, in generale, della società: in quelle pagine, Keynes offre un diverso punto di vista, basato sulla tensione verso un lavoro più significativo e soddisfacente per tutti», chiarisce l’esperto. «Credo, quindi, che, malgrado la profezia keynesiana non si sia avverata, ci sia ancora molto da imparare da quella lezione di ormai quasi cent’anni fa per poter ridiscutere il presente e indagare le ricchezze del possibile».

In Inghilterra: le giornate sotto le coperte

I duvet days sono giornate di stop dal lavoro che alcune aziende inglesi concedono ai propri dipendenti perché possano rifugiarsi dallo stress e prendersi cura di sé. Un duvet day è, quindi, una giornata dedicata al tempo libero, al benessere o alla salute mentale, lontano dal lavoro senza alcun obbligo di preavviso.

«In Italia non ci sono esperienze simili. Intesa San Paolo, Lamborghini e Luxottica hanno previsto sperimentazioni in materia di “settimana corta” e a queste prime probabilmente ne seguiranno altre», chiarisce Alifano. «Il problema che si pone, però, riguarda la riduzione dell’orario di lavoro non solo nelle grandi aziende, nelle quali produttività e tasso di innovazione tecnologica sono talmente alte da coprire il costo della riduzione, ma anche nelle piccole aziende. Il capitalismo italiano, infatti, si caratterizza per l’alta intensità della manodopera nel processo produttivo e, dunque, è necessario immaginare come compensare la perdita di produttività che deriverebbe dalla riduzione dell’orario sia attraverso investimenti in innovazione sia immaginando di superare la centralità dell’ora lavoro nella misurazione della prestazione lavorativa».

Diritto alla disconnessione? Yes, please

Un altro dei temi spinosi è questo: come gestire quel tempo libero e liberato dal lavoro? Con un telefono sempre collegato 24 ore su 24, sette giorni su sette, 365 giorni all’anno, sapremmo veramente “staccare”? Lei cosa ne pensa?

«Uno dei grandi obiettivi della contemporaneità è quello di ridiscutere la centralità dell’ora lavoro nella misurazione della prestazione lavorativa, poiché solo in questo modo è possibile permettere ai lavoratori di poter gestire con maggiore autonomia l’alternanza dei tempi di lavoro e di non lavoro», spiega Alifano – «Al timore della diffusione di una cultura dell’always on, dunque, bisogna rispondere immaginando di dischiudere (con le giuste e opportune tutele previste dalla legge e dall’autonomia collettiva) spazi di autonomia per i singoli lavoratori, che devono poter godere di un maggiore potere nella determinazione del proprio tempo di lavoro, scegliendo quando lavorare. È questa, d’altronde, la logica del lavoro agile, come modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato organizzata per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro».

Come emerge dal recentissimo rapporto dell’Eurofound dal titolo “Right to disconnect: implementation and impact at company level”, nel giugno 2023, nove Stati membri disponevano di una legislazione inerente al diritto alla disconnessione (Belgio, Croazia, Francia, Grecia, Italia, Lussemburgo, Portogallo, Slovacchia e Spagna).

La Francia è stato il primo paese europeo a introdurre il diritto alla disconnessione, mediante un suo provvedimento, il c.d. Codice del Lavoro del 2016.

In Italia, la legge 22 maggio 2017 (n. 81 sulle misure per la tutela del lavoro autonomo e misure per incoraggiare l’articolazione flessibile di orario e luogo di lavoro), si applica a tutte le aziende pubbliche e private. La legge non riconoscere esplicitamente la disconnessione come un diritto, ma ne prevede la regolamentazione mediante contrattazione individuale tra datore di lavoro e lavoratore. In Italia, le modalità di connessione e disconnessione sono parte integrante dei contratti individuali dei lavoratori “smart” e vengono pertanto negoziate tra il lavoratore e il datore di lavoro.

«L’Italia è stato il secondo paese dell’Ue ad introdurre normative relative al diritto alla disconnessione attraverso accordi di lavoro “agili”», spiega Paola de Vita, ADAPT Professional Fellow. «Questi accordi dovrebbero contemplare il diritto del lavoratore al tempo di riposo e le misure tecniche e organizzative necessarie per garantire la disconnessione dagli strumenti tecnologici utilizzati durante il lavoro».
Nel 2021, due accordi interconfederali per il settore pubblico e privato hanno ribadito il diritto alla disconnessione all’interno di modalità di lavoro flessibili e agili: il Patto per l’Innovazione del Lavoro Pubblico e la Coesione Sociale e il Protocollo Nazionale sul Lavoro Agile nel Settore Privato; quest’ultimo stabilisce le disposizioni per l’attuazione del diritto alla disconnessione per i dipendenti.

Foto in apertura, freestocks by unsplash

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