Welfare

Le nuove carceri? le pagano i detenuti

Il piano Alfano sarà in buona misura finanziato dalla Cassa ammende

di Daniele Biella

Il fondo, che oggi vale 150 milioni di euro, per legge dovrebbe servire al reinserimento dei carcerati. E invece servirà a costruire nuovi istituti. «È un grande bluff», denunciano le associazioni. Manconi: «Da anni il Dap aveva in mente questo progetto»
«È una riforma alla rovescia» quella del nuovo Piano carceri, preparata dal ministro della Giustizia Alfano e contenuta in un emendamento del decreto Milleproroghe approvato dal governo lo scorso 23 gennaio, «un provvedimento a cui siamo decisamente contrari». Ad alzare il velo sul grande bluff del governo è Elisabetta Laganà, la neopresidente della Cnvg, la Conferenza nazionale volontariato giustizia, che ha sostituito Claudio Messina. La miccia l’ha accesa qualche giorno fa lo stesso Guardasigilli. «Basta indulti o amnistie», aveva spiegato il ministro, «per uscire dall’emergenza c’è bisogno di nuove carceri, la cui costruzione verrà finanziata utilizzando i fondi della Cassa ammende».
Apriti cielo. Proprio quella Cassa ammende, ente con propria personalità giuridica in seno al ministero della Giustizia che oggi conta su un “tesoretto” di 150 milioni di euro, che nel 2000 è stata rifondata (era nata nel 1932) per essere destinata a progetti di reinserimento di detenuti.
«Utilizzando in questo nuovo modo i fondi dell’ente ministeriale, ciò che dovrebbe essere destinato alla risocializzazione viene destinato alla reclusione», aggiunge la Laganà. «Una decisione presa nonostante ogni statistica dica che i programmi di rieducazione abbattono la recidiva che per i dimessi “normali” è del 67%, mentre per gli affidamenti in prova si abbassa al 5%». La decisione del Guardasigilli di «ampliare per legge le finalità della Cassa ammende», ha presto rastrellato, oltre alla protesta della Cnvg (che conta su una rete territoriale di 18 Conferenze regionali e fa parte della commissione Giustizia) e alla pronta condanna dei radicali («è un saccheggio delle risorse sociali per costruire nuove galere», ha tuonato Rita Bernardini, deputata del Partito radicale eletta nel Pd), la contrarietà di praticamente tutto il terzo settore carcerario.
In prima fila l’associazione A buon diritto, ente presieduto dall’ex sottosegretario alla Giustizia e primo Garante dei detenuti di Roma, Luigi Manconi. «Non sorprendiamoci di questa decisione, è un progetto di almeno tre anni fa che ora arriva a compimento», rivela Manconi, «mi fu presentato proprio quando ero sottosegretario dall’allora capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria, ndr) Tinebra: io allora lo bocciai, oggi diventa realtà. Ma è una grave distorsione degli scopi istituzionali: la Cassa è un’enorme opportunità, ma per fare tutt’altro». Negli ultimi anni però, governo Prodi compreso, a parte i tre milioni di euro per programmi post indulto, non è stato uno strumento poco utilizzato? «Avevamo preso delle decisioni per rendere più rapida la distribuzione dei fondi, ma per le resistenze e le vischiosità incontrate all’interno del Dap ciò non è servito a molto. È gravissimo il fatto che la macchina sia così lenta», ammette Manconi.
In questo senso, la nuova destinazione d’uso decisa da Alfano potrebbe velocizzare il tutto. «Ma ricordiamoci il tempo medio in Italia per la costruzione di un nuovo istituto di pena è 14 anni», suggerisce il presidente di A buon diritto. Tempistica a parte, dei 150 milioni della Cassa non è però chiaro quanto verrà “prelevato” dal ministro per le nuove carceri. «La speranza è che non sia più di un terzo del totale. Le finalità principali devono rimanere e poter contare sulla maggior parte dei fondi», interviene Nicola Boscoletto, presidente del consorzio di cooperative sociali Rebus, che a Padova si occupa di reinserimento lavorativo.
«È apprezzabile che il ministro, in molte delle sue dichiarazioni, sottolinei l’importanza della rieducazione carceraria: è una positiva discontinuità con il passato», aggiunge Boscoletto, «ma alle parole seguano i fatti. Per combattere il sovraffollamento servono sì nuove strutture, ma senza un investimento concreto nel recupero sociale dei detenuti non cambierà nulla».
Il presidente di Rebus lancia allora una proposta al Guardasigilli: «Anziché costruire da zero, per le carceri che verranno si recuperino capannoni e laboratori industriali in disuso», spiega, «in questo modo, accanto alle celle, sarebbero già pronti all’uso spazi idonei per avviare progetti di reinserimento lavorativo».

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