Non profit

Le nostre colpe nel disastro di Timor

La voce di Antonio Cecconi, Vice-direttore Caritas italiana

di Redazione

Non aveva dato frutti il premio Nobel per la pace al vescovo Belo e al leader Ramos Horta. Servirà a propiziare la causa dell?indipendenza e della pace il martirio del direttore della Caritas locale, Francisco Barreto, e di una quarantina di collaboratori? Purtroppo non pare arrestarsi l?escalation di violenza ad opera dei miliziani ?assistiti? dalle forze regolari indonesiane.

Le fiamme devastano Dili e altri centri, ormai disabitati. Lacunose notizie elencano 5.000 morti negli ultimi otto mesi, 200.000 profughi a Timor Ovest accolti da Caritas Indonesia, col supporto di Caritas Australia. La ?rete? della Chiesa cattolica, in cui anche Caritas Italiana è attiva, assicura alimenti, medicine e attrezzature di prima necessità ed è pronta a progetti di riabilitazione quando verrà la pace. Provoca un serio esame di coscienza il fatto di occuparci di un popolo solo perché finisce in prima pagina. Fino a due settimane fa neanche sapevamo trovarlo sull?atlante. Nonostante due Premi Nobel, restavamo inconsapevoli di massacri che nel ?75 fecero fuori 200.000 persone (un terzo della popolazione dell?epoca).

Adesso l?Indonesia pare accettare un intervento straniero sotto l?egida dell?Onu, col probabile coinvolgimento di quegli Stati che fino ad oggi hanno fatto affari con le ?tigri asiatiche?: aggressive fin che si vuole, magari cavalcate da un dittatore, ma capaci di offrire bassissimi costi del lavoro, buon interscambio commerciale e appetibili mercati finanziari.

Vari governi si dichiarano disponibili all?intervento, non senza precisare che ?Timor non è il Kosovo?. Viene da chiedersi se l?intervento Nato nei Balcani sia stato l?inizio di un?espansione di civiltà, connotata dall?impegno stabile delle nazioni più forti e democratiche di tutelare i diritti offesi e i popoli oppressi. Oppure se non ci sia previamente bisogno di altro: rilanciare l?Onu, monitorare e denunciare ogni violazione dei diritti, condizionare gli aiuti al cammino verso la democrazia. Se questa è la strada, urge progettare ex novo una vera forza di polizia internazionale. Tutt?altra cosa rispetto a spezzoni di eserciti accozzati all?ultimo momento, capaci assai più di bombardare e aggredire che di prevenire, dissuadere, pacificare.

Mentre in questo frangente cerchiamo di aiutare Timor Est, non possiamo tacere che fino a ieri abbiamo venduto armi all?Indonesia. Nel febbraio 97, alla presenza di un Ministro della Repubblica Italiana, alti rappresentanti dell?industria bellica e delle Forze armate nostrane tennero a Giakarta una mostra dell?armamento ?made in Italy?. Forniture di armi e di servizi (probabilmente addestramento o assistenza tecnica) sono andate avanti nonostante condanne Onu e controlli del Parlamento. La solidarietà non si costruisce sulla smemoratezza; rischiamo di andare a curare ferite procurate da armi che noi abbiamo venduto. Nell?imminenza del terzo millennio, anche questo è Giubileo: verità e riconciliazione, scioglimento dei legami iniqui che ancor oggi sono causa di oppressione e schiavitù. L?Italia, oltre a ospitare le celebrazioni, potrebbe parlare di Anno Santo al mondo praticando la moratoria dell?export bellico? È sognabile per il nuovo millennio l?utopia della rinuncia unilaterale alla produzione e alla vendita di armi?

di Antonio Cecconi, Vice-direttore Caritas italiana

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