Sostenibilità
Le mosse del gigante nella partita finale
Il ruolo decisivo della Cina ai tavoli del negoziato globale
Dopo la svolta di Hu Jintao, tutti attendono di capire come si comporterà il colosso asiatico. Che punta a non diventare il capro espiatorio di un eventuale fallimento Minacciano di ritirarsi dalla conferenza di Copenhagen se i Paesi industrializzati non si impegneranno a un maggiore taglio delle emissioni e a un più consistente investimento economico. È stata questa la posizione della Cina e del G77, il gruppo dei Paesi in via di sviluppo, a Barcellona, durante le ultime trattative Onu prima del summit di dicembre. Intanto, in vista della prossima visita di Obama a Pechino, il presidente cinese Hu Jintao ha affermato che la Cina vuole un esito positivo dei negoziati.
«Tutte le parti, comprese la Cina e gli Stati Uniti», ha detto Hu Jintao, «sono interessate a raggiungere un ampio consenso sulla base del principio delle responsabilità comuni, ma differenziate». Secondo Pan Jiahua, un esperto della Chinese Academy of Social Sciences, «le speranze che si arrivi a un trattato vincolante per dimezzare le emissioni di gas serra per il 2050 sono molto deboli». Sembra più probabile che si raggiunga inizialmente un accordo politico. I toni del delegato Usa per il clima, Todd Stern, fanno affievolire ulteriormente la speranza che l’incontro tra Obama e Hu Jintao porti a un progresso concreto, anche se il vertice tra i due leader potrebbe rafforzare una base di fiducia reciproca, che faciliterebbe un accordo globale. Alcuni ormai pensano che Copenhagen non sarà il punto di arrivo, ma quello di partenza.
Wang Ke, professore di Politica ambientale all’università Renmin di Pechino, fa notare: «La Cina vuole evitare di diventare il capro espiatorio, nel caso di un fallimento delle trattative». In aprile, quando il gigante asiatico ha cambiato le sue posizioni in seguito alle aperture statunitensi, Su Wei, negoziatore cinese per il clima, ha affermato: «Non abbiamo ancora raggiunto la fase in cui possiamo ridurre le emissioni totali, ma possiamo ridurre l’intensità di carbonio».
La posizione cinese è considerata spesso il maggiore ostacolo al raggiungimento di un accordo post Kyoto: i Paesi in via di sviluppo non avranno l’obbligo di rispettare obiettivi fissati a livello internazionale finché non avranno vinto la povertà al loro interno. Ma d’altra parte la Cina afferma che i Paesi ricchi non fanno abbastanza per tagliare le loro emissioni di gas serra, né per sostenere lo sviluppo delle tecnologie pulite nel Sud del mondo.
Oggi, almeno, il governo cinese riconosce l’esistenza del problema. E nel 2007 ha istituito un Programma nazionale sui cambiamenti climatici. Il gigante asiatico è particolarmente vulnerabile al surriscaldamento globale, soprattutto per lo scioglimento dei ghiacci sull’Himalaya. Ha già sperimentato l’intensificarsi di eventi catastrofici come siccità e alluvioni e la diminuzione dei terreni agricoli in Asia centrale.
Ma secondo Julian Hunt, esperto di clima all’University College di Londra, la Cina non arresterà la sua crescita. «Il governo prevede un aumento del Pil di 6 punti percentuali all’anno per i prossimi 40 anni», afferma in un articolo apparso sul New Scientist, «e il motore di questa crescita saranno le fonti fossili, in particolare il carbone. La politica della Cina è quella di migliorare l’efficienza energetica, ma anche così, probabilmente, le emissioni di gas serra del Paese raddoppieranno nel 2050. Ciò che possono fare i Paesi industrializzati è fornire assistenza tecnologica, ad esempio per i sistemi di cattura e stoccaggio della CO2. Ma prima di tutto devono impegnarsi loro stessi a tagliare le proprie emissioni almeno dell’80% per il 2050».
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