Volontariato

Le mille tonalità del nero

In questi giorni uno dei più importanti palcoscenici italiani, quello del Piccolo di Milano, si anima con la trasposizione "etnica"del testo goldoniano.

di Federico Cella

Avete in mente l?Arlecchino? Ricordate Goldoni, la sua lingua veneta, veloce e irridente? Immaginatevi il palcoscenico più noto e più sacro d?Italia: quello del Piccolo Teatro di Milano, dove Strelher con Soleri ha messo in scena almeno una ventina di riletture di Arlecchino. Ebbene, scordatevi tutto questo. Tutto, tranne il palcoscenico del Piccolo dove in questi giorni è in scena un Arlecchino multicolore, ma fondamentalmente nero. Un Arlecchino venuto dal Senegal. «L?Arlecchino di Goldoni doveva emigrare da Bergamo a Venezia. Il mio è stato costretto a fare un viaggio più lungo: dall?Africa in Europa» parola di Mor Awa Niang, interprete del Mor Arlecchino (e i suoi ?Ventidue infortuni?). Non esiste, in questo caso, un esatto confine tra la finzione e la realtà: il Mor Arlecchino non fa capriole o svillaneggiamenti, ma balla i ritmi forsennati della natìa Africa; non parla con cadenza veneta, ma un misto di italiano, francese e dialetto senegalese wolof. Ma, soprattutto, il Mor Arlecchino, carico di valigie da immigrato, viene derubato, bastonato (e questo era già nel classico), incarcerato ed emarginato perché è uno straniero. «Ma alla fine», spiega Mor, «di Arlecchino c?è solo il nome e il vestito. Questa è la storia, tragicomica, di un immigrato africano, che si sente veramente Arlecchino solo quando parla in wolof, la sua lingua, e quando riesce a ballare ai ritmi della sua terra. Che non è per niente quella dove si trova». L?immigrazione tra finzione e realtà Mor Awa Niang ha qualche difficoltà a uscire dal personaggio, con una storia così simile alla sua. È arrivato in Italia nell?89, chiamato a Roma da suo fratello maggiore, per intraprendere l?attività di venditore ambulante. «Era una cosa normale: ho dodici fratelli, e io sono il secondo; quindi su di me ricade buona parte della responsabilità del mantenimento della mia famiglia in Senegal. Ho dovuto lasciare mia moglie e i miei tre figli, per trovare i soldi da mandare a casa». E così per Mor, allora ventitreenne, inizia un ?triste? destino legato a doppio filo con gli accendini. Un destino occasionale, però, che non ha avuto la forza di contrastare la tradizione familiare: Mor infatti viene da una famiglia di griot, saltimbanchi e artisti di strada senegalesi; i cantori di una tradizione orale che, altrimenti, andrebbe perduta. E quando nelle vene scorre del buon sangue… «Sono passati solo due mesi, e lo spettacolo è rientrato nella mia vita. Ero a Rimini, per fare la stagione a vendere sulle spiagge, quando nel centro d?accoglienza per immigrati ho conosciuto Mandiaye N?Diaye e El Hadji Niang, due ragazzi senegalesi come me, uomini di spettacolo anche loro. È stato un colpo di fulmine, e di fortuna: abbiamo subito deciso di smettere la nostra attività di ambulanti e farci trasportare dalla nostra passione comune». Così nacque la compagnia ?Guendiawaye Theatre?: recitazione, balli e percussioni, ma anche tante storie, direttamente dal cuore dell?Africa. Dagli accendini al proscenio europeo I primi spettacoli nel comune di Bagnacavallo (provincia di Ravenna), in un vero teatro. «Che a noi sembrava una specie di Parlamento. Sai, in Senegal non esistono teatri come li intendete voi. Da noi lo spazio dello spettacolo è delimitato da un cerchio, non c?è distinzione tra gli attori e il pubblico: quando sei nel cerchio sei attore, appena esci, diventi pubblico». All?inizio solo qualche spettacolo, senza vedere il becco di un quattrino: giusto il necessario per mangiare. «E a casa, in Senegal, erano davvero infuriati. Non tanto perché stessi facendo un lavoro, secondo loro, poco dignitoso, quanto perché non riuscivo a mandare i soldi a casa. L?equazione era semplice: se non manda soldi, vuol dire che non lavora. Quindi avevo pensato che sarei tornato presto a vendere accendini». E invece no: dopo due anni il Comune di Ravenna si accorge di loro, e affida alla cooperativa di teatranti senegalesi la gestione del teatro ?Alighieri?, uno dei maggiori della città. «Italiani democratici, ma un po? ottusi» Da allora i tre, spesso accompagnati da altri ?fratelli d?avventura?, hanno messo in scena la bellezza di undici spettacoli, in giro per tutta Europa. «È diventato un vero lavoro, e adesso ho i soldi da mandare giù. Più di quando facevo l?ambulante». Perché gli spettacoli funzionano: c?è poco da fare, un africano che recita in teatri ufficiali, portando i ritmi e i colori della sua terra in testi della nostra tradizione, desta curiosità; perché il nero è comunque ancora un colore diverso. E un po? strano. «Vengono a vedermi perché sono curiosi; e, alla fine, apprezzano la mia bravura. Ma solo perché io ho la fortuna di poter essere conosciuto: forse nelle vostre strade ci sono altri mille senegalesi più bravi di me. E che non hanno avuto la possibilità di ritrovare, sotto i tetti dei teatri, la danza e i tamburi che avevano perso sotto gli alberi del Senegal». Una bella storia di immigrazione, quindi; una storia che si finge, e trova la sua catarsi, nello spettacolo. «Ma ho dovuto imparare la vostra lingua, a recitare in italiano. Nel vostro Paese, infatti, se non parli l?italiano sei considerato davvero uno straniero. Siete un po? ottusi, questo devo dirlo. E mi dispiace, perché in realtà l?Italia è un bel posto dove stare: c?è molta democrazia, e molta libertà, anche se voi vi lamentate. Ma non è la mia casa». E Mor, che adesso può permetterselo, passa sei mesi da noi, e altri sei in Senegal, a Dakar. Sempre per recitare, naturalmente: «Ma qui in Italia mi trovo davanti un pubblico di bianchi, un pubblico che non partecipa, che applaude solo quando è il momento. Il problema è che siete freddi, non c?è niente da fare: secondo me vi dimenticate troppo in fretta che cosa vuol dire essere bambini». Parola di Mor-Arlecchino.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA