Parigi 2024
Le migliori testimonial per il sociale delle Olimpiadi? Le “perdenti” Benedetta Pilato e Kimia Yousofi
Luca Palmas, fundraiser esperto di sport sociale: «Prendere gli atleti "tout court" come modelli è sbagliato. Non sono modelli, ma possono diventare esempi. Come nel caso dell'italiana e dell'afghana che hanno perso, ma sono state in grado di definire in modo autonomo cosa sia il successo per loro»
«Le due atlete che, più di tutti i partecipanti, hanno lanciato un messaggio sociale importante nel corso delle Olimpiadi di Parigi, sinora sono Benedetta Pilato e Kimia Yousofi. Le sceglierei per abbinarle a un progetto nel sociale». Il fundraiser Luca Palmas non ha dubbi. Lui, che ha coinvolto tanti sportivi professionisti per sostenere realtà e iniziative del Terzo settore, spiega la scelta così: «Pilato, dopo che da sedicenne aveva accusato l’ansia della prestazione che l’aveva fatta fallire a Tokyo, ora ci mostra una crescita personale importante e, in un’intervista concessa subito dopo la gara di qualche giorno fa, si è considerata felice per il quarto posto. Non è tanto perché Benedetta esce soddisfatta dai suoi 100 rana, quarto posto a un centesimo dal podio, per cui nessuno può dire se sia giusto o sbagliato, bensì perché non si lascia definire dagli altri o dai traguardi. È lei che decide cosa è un successo e cosa no, con una maturità e una risolutezza incredibile per una ragazza così giovane. Magari il suo è un ragionamento di crescita, va bene per ora vista la sua giovanissima età, ma è un passo importante. “Essere quarta al mondo per me va bene, ce ne sono altre tre davanti a me, ma quante ce ne sono dietro”, sembra voler dire. E senza scomodare Eliot, per citare non l’importanza del traguardo ma del percorso, qui è proprio il traguardo che conta. Potrebbe essere la dimostrazione di una consapevolezza che le nuove generazioni stanno distillando rispetto a quelle precedenti, nel mezzo di un dibattito sportivo che da Antetokounmpo ad Ancelotti coinvolge super atleti affermatissimi che scelgono di non farsi definire dalle proprie sconfitte, ma dal loro impegno. Come insegnamento ha una portata incalcolabile».
E Yousofi? «Lei è arrivata ultima nella qualificazione femminile dei 100 metri, eppure ha vinto. Sembra retorica, ma non lo è. Ha sganciato il suo pettorale con il nome, per mostrare il retro alle telecamere: due scritte blu e rosse, “Istruzione” e poco sotto “I nostri diritti”, scritti in lingua inglese. La dichiarazione successiva è dirompente: “Non mi sono mai occupata di politica, faccio solo ciò che ritengo sia vero e giusto. Posso parlare con i media. Posso essere la voce delle ragazze afghane. Posso dire cosa vogliono: vogliono diritti fondamentali, istruzione e sport. Questa è la mia bandiera, questo è il mio Paese. Questa è la mia terra”. Magnifico».
Palmas poi allarga il campo. «Cito anche Luol Deng che, da vero filantropo, senza poterne avere alcun ritorno, ha finanziato la spedizione della squadra di basket del Sud Sudan ao Giochi dopo aver ricevuto, non solo metaforicamente, il pallone da Manute Bol in un campo di rifugiati. Certe storie possono succedere solo nello sport. Storie bellissime come, appunto, quelle del Sud Sudan, che in un Paese come il nostro non possono essere un altro esempio per tutti i giorni. Eppure, ci possono insegnare qualcosa di profondo nel rapporto sportivo/sociale. Oppure storie bellissime come che in passato ci aveva proposto il giamaicano Usain Bolt, uno dei mostri sacri della velocità mondiale di tutti i tempi».
«La sconfitta, l’infortunio, il disorientamento, fanno parte del gioco come della vita», prosegue Palmas. «Non si possono considerare compartimenti stagni, sono le due facce della stessa medaglia, d’oro o di legno che sia. Un quarto posto può valere una vita di sacrificio, un oro può venire facile. Non possono essere poggiati sui due piatti della stessa bilancia».
Un chiaro richiamo alla vicenda che ha visto protagonista la nuotatrice Benedetta Pilato. La ranista pugliese ha conquistato la cosiddetta “medaglia di legno”, piazzandosi alle spalle dell’irlandese Mona McSharry. È doveroso ricordare che, a dispetto dei suoi 19 anni, con una carriera tutta da costruire (e speriamo lunghissima), vanta già un oro mondiale e quattro ori europei (due in vasca lunga e altrettanti in vasca corta). Non solo: a 14 anni e sei mesi d’età, è stata l’atleta italiana più giovane a debuttare in un campionato mondiale, battendo così il record detenuto da una certa Federica Pellegrini. Insomma, parliamo di un talento vero. A Parigi, a caldo, una commossa Benedetta ha rilasciato la consueta intervista e, tra le altre cose, ha detto: «Sono lacrime di gioia, ve lo giuro. Sono troppo contenta, è stato il giorno più bello della mia vita». Aveva già spiegato di avercela messa tutta ma di non essere riuscita a coronare il sogno di una medaglia. Forse non ha espresso al meglio il suo pensiero, probabilmente voleva dire che comunque un quarto posto alle Olimpiadi non è esattamente da buttare via. Anche se fa male mancare il podio per un misero centesimo di secondo. Ciò non è bastato a frenare l’impeto di Elisa Di Francisca, ex schermitrice della Nazionale italiana, oggi commentatrice tv. «Non ci ho capito niente. Non so se ci è o se ci fa», ha detto Di Francisca. La levata di scudi in difesa di Benedetta Pilato è stata così poderosa da suggerire alla commentatrice di rimediare alla gaffe con una telefonata per spiegare che non voleva mancare di rispetto alla nuotatrice. Ma tant’è. Forse, a volte, ci dimentichiamo che lo sport prevede la sconfitta ed essa va accettata, soprattutto se si è dato il massimo.
Domanda lecita: non è che pretendiamo troppo dagli sportivi professionisti? Magari dimenticandoci che, soprattutto in certe discipline, hanno un’età in cui a volte può scappare una parola di troppo o una considerazione che non rispecchia esattamente il loro pensiero. Sono giovanissimi, a volte ragazzini, ai quali si gettano addosso con esagerata facilità delle croci pesanti da portare. Il fatto che molti di loro ricevano lauti compensi, non modifica la sostanza delle cose. A scanso di equivoci, precisiamo che qui non si parla di etica sportiva e di fair play: quelli li diamo per scontati a tutti i livelli. Palmas non ha dubbi: «A mio avviso, prenderli tout court come modelli è assolutamente sbagliato. Non sono modelli, possono diventare esempi, ma solo quando rientrano nel nostro sistema di riferimento valoriale».
Non ci sono soltanto gli aspetti negativi, naturalmente. L’impegno nel sociale di molti sportivi è apprezzabile. Spesso sono artefici di grandi iniziative che vanno in porto senza la grancassa dei media. Non tutti, insomma, sono in cerca di pubblicità. «A me piacciono moltissimo gli atleti che mantengono vive le radici. Faccio l’esempio di Paul Biligha, cestista della Nazionale italiana che ha origini camerunensi. Paul vive da professionista in Italia, eppure ha costruito una Fondazione in Camerun per tutti quei ragazzi che potrebbero fare il suo stesso percorso. È un atleta istruito, laureato, “moderno”, uno sportivo 2.0 perfettamente inserito nel contesto che vive tutti i giorni, ma che si vuole rendere utile anche nella sua comunità di riferimento. Rendere utile attivamente, intendo, non solo “coprendo le spese” ma lavorando in prima persona».
Purtroppo, anche la politica ci mette il suo zampino e può inquinare un ambiente che conserva ancora tanti valori positivi. «Sport e politica sono due mondi che dovrebbero rimanere distinti, se non distanti, e invece spesso si assiste al politico di turno che vuole salire sul carro del vincitore o che usa argomenti pretestuosi per polemiche inutili, vedi tutto il baillame sull’incontro di pugilato tra la nostra Angela Carini e l’algerina Imane Khelif. Purtroppo, è impossibile tenere separati totalmente i due mondi, ma non solo in Italia, basti pensare ai fortissimi contrasti tra Donald Trump e LeBron James in occasione del Black Live Matter (un movimento attivista internazionale, impegnato nella lotta contro il razzismo perpetrato in ambito sociopolitico contro le persone nere, ndr) o alla recente presa di posizione di Kylian Mbappé, agli ultimi Europei di calcio, per le votazioni politiche in Francia. Per contro, gli sportivi famosissimi devono stare molto attenti a non abusare della loro posizione comunicativa privilegiata: ecco perché sono per l’espressione delle proprie idee e dei propri valori, ma non quando si rappresenta la propria nazione in un contesto internazionale di massima esposizione mediatica. Poi, tra i due estremi (il famoso “stai zitto e palleggia”, perché in definitiva sei solo una macchina da sport, e il coraggio di Mbappé), preferisco quest’ultimo. Bellissimo, ad esempio, il contributo di Nico Williams (21enne della Spagna) contro il razzismo».
«Posto che lo sport è il “modello” che più si avvicina a spiegare la vita (preparazione, sforzi, risultati, oppure ancora preparazione, sforzi, risultati) e che quindi gli sportivi normalmente sono già pronti mentalmente ad agire, nella nostra esperienza di Pca (l’analisi delle componenti principali, ndr) non paga solo la leva, per quanto fortissima, della restituzione, del give back», sottolinea il fundraiser. «Non si può agire dal punto di vista motivazionale con l’approccio “Tu ce l’hai fatta, sei fortunato, e quindi “devi” dare qualcosa a chi è meno fortunato di te!”. Ma per quale motivo? Invece, il rapporto con le comunità di riferimento funziona meglio, dal punto di vista della motivazione filantropica, se si intercettano i valori e i desideri di contribuzione dello sportivo e si incanalano professionalmente in percorsi di accompagnamento seri e verificati che producono un reale impatto sociale. Si va sempre di più verso una società di integrazione sportiva (vedi la nostra atletica) e questo significherà, nei prossimi anni, che le comunità di riferimento non saranno necessariamente quelle sotto casa. Le storie di sport possono essere un esempio, ma anche un’ispirazione per una società con meno differenze per i nuovi arrivati che siano nati in Italia o che siano migranti. Vi invito a leggere tutto quello che trovate sulla squadra di basket del Sud Sudan alle Olimpiadi, ne uscirete arricchiti».
Foto Gian Mattia D\’Alberto – LaPresse
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