Morire di lavoro nero
Le migliaia di Satnam Singh d’Italia che nessuno vede
La morte del bracciante indiano, abbandonato davanti alla sua abitazione dopo aver subito l'amputazione di un braccio in un infortunio, riaccende i riflettori sul mondo dello sfruttamento e del caporalato. Il recente rapporto del Centro di ricerca interuniversitario l’Altro Diritto con l’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, evidenzia che il fenomeno è presente in tutta Italia. E cresce nel Nord, in settori come logistica, moda, tessile
Satnam Singh non ce l’ha fatta. Ė morto ieri pomeriggio all’ospedale San Camillo di Roma, dove era stato ricoverato in seguito alle gravi ferite riportate lunedì scorso, quando era rimasto coinvolto in un terribile incidente sul lavoro in un’azienda agricola di borgo Santa Maria, nella periferia di Latina. Il trentunenne di origine indiana aveva perso il braccio in un macchinario avvolgiplastica a rullo trainato da un trattore, il quale gli aveva schiacciato anche gli arti inferiori. Anche lui era un bracciante agricolo, vittima di sfruttamento e di crudeltà. Invece di essere soccorso dai suoi datori di lavoro, Satnam era stato abbandonato davanti la sua abitazione con il braccio tranciato, poggiato sopra una cassetta utilizzata per la raccolta degli ortaggi. L’ennesima vittima dei caporali e dei datori di lavoro senza scrupoli, che assoldato in nero manodopera per impiegarla nei campi. Per questo, il suo datore di lavoro è accusato di omissione di soccorso, violazione delle disposizioni in materia di lavoro irregolare e omicidio colposo.
La morte di Satnam Singh riaccende i riflettori sul mondo degli invisibili, degli schiavi delle campagne, «delle persone disperate che vivono una condizione di bisogno ed hanno necessità di lavorare. Ma il caso del giovane bracciante indiano mette in evidenza anche il comportamento di crudeltà di chi poteva aiutarlo ed invece lo ha lasciato morire senza alcuna assistenza». Emilio Santoro è il direttore del Centro di ricerca interuniversitario l’Altro Diritto. Insieme da Elisa Gonnelli ha redatto il “Quinto Rapporto del Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo e la protezione delle sue vittime” che viene realizzato con l’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil. Uno strumento che si pone «l’obbiettivo di esaminare la dimensione pervasiva del fenomeno dello sfruttamento lavorativo, analizzando la capacità di emersione della legge 199 del 2016 in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e l’efficacia degli strumenti di protezione delle vittime. Una legge, appunto, pensata per l’agricoltura ma che riguarda tutti i settori dello sfruttamento a cui prima magari non si pensava o non venivamo approfonditi» spiega Santoro.
Non a caso, rispetto ai dati dell’ultimo rapporto in cui i casi intercettati erano 458, nel nuovo dossier sono ben 834 le vicende di sfruttamento complessivamente individuate. Una situazione di illegalità diffusa che va da Nord a Sud, che riguarda tutte le regioni italiane. «Abbiamo sempre pensato che il fenomeno dello sfruttamento fosse presente solo in agricoltura e nel Sud Italia. L’articolo 603 bis del codice penale» evidenzia Santoro «ha fornito le Procure dello strumento utile a spingersi oltre, in tutti i campi, facendo emergere come lo sfruttamento sia molto presente anche nel Nord Italia in settori come logistica, moda, tessile. Non viene ancora trovato nell’edilizia, dove è evidente che ci sia, e nel lavoro domestico, perché le forze dell’ordine non possono entrare nelle abitazioni delle persone per fare controlli».
Il rapporto, dunque, indica che guardando alla distribuzione geografica nei singoli settori, emerge che in alcuni comparti produttivi le inchieste per sfruttamento si concentrano in determinate zone geografiche: se il settore primario conta al Sud il numero più elevato di casi, con 252 su 432 a livello nazionale, nel settore secondario, specie nel manufatturiero, lo sfruttamento si concentra al Centro, con 65 su 155 (circa il 41%), mentre nel settore dei servizi spicca il Nord, dove si collocano 74 su 197 casi complessivi (circa il 38%). «Lo stato di bisogno di cui lo sfruttatore si approfitta, sta a monte di questo problema. Perché nella maggior parte dei casi di sfruttamento lavorativo sono i lavoratori stessi a cercare un impiego e ad accettare qualsiasi condizione sia loro offerta, proprio in ragione dello stato di bisogno in cui si trovano» chiarisce Santoro.
La maggior parte dei casi di sfruttamento coinvolgono cittadini stranieri il cui permesso è per richiesta di protezione internazionale o rilasciato per ragioni umanitarie
Emilio Santoro, curatore del rapporto
«Controllo e repressione non bastano a fermare il fenomeno ed anche il nostro lavoro di ricerca rappresenta un bicchiere che vuole svuotare il mare. Per incidere realmente sulla questione occorre intervenire in due modi. La maggior parte dei casi di sfruttamento coinvolgono cittadini stranieri il cui permesso è per richiesta di protezione internazionale o rilasciato per ragioni umanitarie. Sono richiedenti asilo accolti soprattutto nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) che, pur avendo vitto e alloggio, sono costretti a lavorare ed accettare qualsiasi tipo di condizione perché hanno necessità di inviare i soldi a casa, per dare una risposta al loro viaggio migratorio, in quanto non possono stare 2 o 3 anni in attesa dei documenti per poter trovare una regolare occupazione». L’altra questione per i ricercatori è legata al fatto che «la legge prevede che deve essere allontanato dall’accoglienza chi ha un reddito superiore all’importo annuo dell’assegno sociale, pari ad euro 5.953,87 euro. Una situazione che crea un cortocircuito, che spinge il migrante al lavoro in nero e allo sfruttamento. Occorrerebbe, allora, per chi lavora non prevedere l’allontanamento della struttura ma la richiesta di compartecipare con un contributo ai costi dell’accoglienza. Se non facciamo saltare questo sistema continueremo a fare un favore a sfruttatori e caporali» conclude Santoro.
Nella foto in apetura, di Alessandro Veca/Agenzia Sintesi, immigrati a Villa Literno (Ce)
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