Mondo
Le mamme tunisine che riconoscono i figli morti nel naufragio
Due salme di migranti morti nel naufragio del 7 ottobre scorso di Lampedusa sono state riconosciute da due madri tunisine arrivate in Italia dopo essersi sottoposte all'esame del Dna. Sono state quattro le donne a presentarsi come "persone informate dei fatti" ai magistrati di Agrigento che così sono riusciti a dare una risposta ai familiari che non hanno mai smesso di cercare
Tra quei corpi in fondo al mare c’è quello di un giovane che era partito perché malato di cancro e voleva semplicemente guarire. Ma i sogni più che mai legittimi di quel ragazzo, a cui era stato negato il visto nel suo paese per raggiungere l’Italia legalmente, si sono infranti nel naufragio del 7 ottobre a sei miglia da Lampedusa. Oggi quel corpo in fondo al mare ha un volto, un nome, una storia che appartiene a noi tutti.
In una stanza degli uffici della Procura di Agrigento si cerca di dare dignità ai morti e una risposta ai vivi. E il corpo di L., 33 anni che in Tunisia aveva lasciato moglie e figlia con la speranza di riabbracciarle da vittorioso, dopo essere guarito, è uno di quelli. È in quella stanza che per la prima volta i familiari delle vittime del naufragio vengono convocati dai magistrati italiani come "persone informate dei fatti” nel tentativo di riconoscere i loro cari scomparsi. Sono quattro madri tunisine che si sono sottoposte dopo vari appelli all’esame del Dna permettendo così il riconoscimento che ha dato risultati positivi per due salme ora nel cimitero di Caltanissetta, ma che raggiungeranno presto Tunisi per una degna sepoltura.
Un risultato che ha qualcosa di speciale, avvenuto in tempi rapidi grazie all’incessante lavoro del Procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella, al sostituto procuratore Cecilia Baravelli, all’avvocato Leonardo Marino che ha assistito legalmente le quattro madri tunisine e all’impegno della rete di associazioni Terre pour Tous di Imed Soltani, Lasciatecientrare, Borderline Sicilia, Rete antirazzista catanese e Carovane migranti vicine ai familiari delle vittime raccogliendo quella disperata necessità di ricongiungersi con le salme dei loro cari.
«Invitare i familiari come persone informate dei fatti ha permesso un precedente unico sia per la rapidità con cui si è svolto tutto l’iter, sia perché questo strumento potrebbe essere utilizzato nel contrasto al traffico di migranti», spiega l’avvocato Marino che descrive il coraggio, la forza e la speranza di queste donne che chiedono ancora di continuare a cercare.
L’incontro tra i magistrati di Agrigento e le quattro madri tunisine si è svolto a porte chiuse e nel massimo riserbo considerata anche l’inchiesta in corso sul naufragio. Le salme identificate sono di due ragazzi di 22 e 26 anni, mentre non è stato possibile procedere al riconoscimento dei figli di due delle mamme presenti, un altro ragazzo di soli 18 anni e quello di L. , il giovane malato di cancro di cui oggi conosciamo una storia che non resterà più sommersa nei fondali marini dell’esistenza.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.