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Le inquetudini della Tunisia

Qual è stato il corto circuito che ha condotto una parte della popolazione giovanile, in particolare quella che chiedeva il cambiamento e la libertà, a identificarsi con il jihadismo?

di Leila El Houssi

Dopo l'attacco al Museo del Bardo di Tunisi, avvenuto lo scorso marzo, in cui hanno perso la vita 22 persone oltre a 40 feriti, la Tunisia è stata nuovamente aggredita venerdì 26 giugno, durante il Ramadan, su una spiaggia affollata di turisti a Port El Kantaoui. Il giovane aggressore di 23 anni, Seiffedine Rezgui, armato di kalashnikov ha aperto il fuoco uccidendo 40 persone. Seiffedene Rezgui appartiene a quella generazione di giovani che alcuni analisti definiscono i nuovi martiri che hanno deciso di arruolarsi nelle frange del terrorismo di Da’sh (Isis).

Il fenomeno è sempre più diffuso e la Tunisia vanta il triste primato di esportatore di jihadismo verso l’Iraq e la Siria. Il paese, che nel 2011 attraverso la voce dei suoi giovani, ha manifestato urlando nelle piazze reali e virtuali Hurrya e karama (liberà e dignità) cacciando il dittatore, ha rappresentato per molti un modello per come ha portato avanti il processo di transizione. Un percorso non privo di difficoltà oggettive, contrassegnato da scontri su alcune importanti tematiche nel difficile cammino della transizione costituzionale. Tuttavia, con la promulgazione della Costituzione nel gennaio 2014 e le elezioni legislative e presidenziali, la Tunisia si accingeva alla fase più complessa: la costruzione della nazione sotto la bandiera della libertà e della democrazia.

Qual è stato, dunque, il corto circuito che ha condotto una parte della popolazione giovanile, in particolare quella che chiedeva il cambiamento, a identificarsi con il jihadismo ? Quando la transculturalità, che ha sempre contraddistinto il paese è stata sostituita nelle menti di una parte considerevole delle nuove generazioni da un pensiero univoco che inneggia alla tradizione religiosa?

Dinanzi ai drammatici episodi che hanno investito la Tunisia non possiamo non interrogarci sul nuovo posizionamento di parte di quei giovani che nel 2011 hanno con forza chiesto un cambiamento reale e oggi appaiono terreno fertile per i reclutatori del terrore. Indubbiamente il malessere sociale che la Tunisia sta vivendo ormai da troppi anni è uno dei molteplici fattori che può spiegare quello che sta accadendo, anche se non è il solo. A questo si aggiungono le difficoltà economiche in cui versa un paese in cui la disoccupazione sfiora percentuali altissime. Com’è noto, ad esempio, il comparto del turismo, già in perdita all’indomani della rivolta del 2011, ha subito una flessione considerevole ( -25,7% ) dopo l’attentato del marzo scorso provocando un’importante riduzione di posti di lavoro.

Ma il malessere socio-economico è accompagnato da quello psicologico. Questi giovani che vivono nell’era di internet, in cui il cambiamento sembra che debba avvenire repentinamente, non hanno forse retto alla complessità del processo di transizione. L’abbandono nelle periferie della generazione che è stata protagonista di una trasformazione epocale del paese è forse uno degli indicatori più importanti per comprendere la complessità di questo nuovo fenomeno. Giovani che attraverso il jihad riattualizzano il termine di jahilyya (ignoranza, negativo) per identificare un Occidente che a loro avviso è complice della loro situazione di malessere.

La risposta del governo tunisino appare articolata. Non c’è dubbio che alcune misure annunciate dal capo dello stato Essebsi e dal Primo Ministro Essid, siano necessarie. Il timore di ulteriori attacchi è troppo forte e la politica della sicurezza è imprescindibile per qualsiasi governo. Tuttavia, la fragilità del paese è legata al malessere delle giovani generazioni verso le quali va impostato un serio aiuto attraverso politiche giovanili e programmi internazionali di educazione alla cittadinanza attiva, cui l’Europa e i suoi stati membri possono fornire un aiuto importante attraverso progetti di cooperazione.

Infatti, se la politica della sicurezza non sarà accompagnata da un capillare aiuto economico e sociale verso quei giovani delusi che all’indomani della primavera dei gelsomini sono diventati terreno fertile di reclutamento per il terrorismo, il futuro del paese sarà a rischio.

Leila El Houssi è docente e coordinatrice organizzativa del Master Mediterranean Studies presso l’Università di Firenze e già docente di Sociologia dei diritti umani presso l’Università di Padova. Ha completato un Master in “Studi interculturali” presso l’Università di Padova e conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in “Storia, istituzioni e relazioni internazionali dei paesi extra-europei” presso l’Università di Pisa dove ha curato una tesi sul ruolo dell’antifascismo italiano in Tunisia nel periodo tra le due guerre mondiali.

Il suo ultimo libro è L’urlo contro il regime. Gli antifascisti italiani in Tunisia tra le due guerre. Carocci editore, 2014

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