Formazione

Le immagini che hanno raccontato la tragedia asiatica. La tv nel fango

Per le televisioni è stata una débâcle. Hanno rincorso frammenti di immagini che non rendevano l’enormità di quanto accaduto. Perciò è stata la rivincita delle fotografie.

di Luca Doninelli

Per parlare delle tragedie con un minimo di giustizia è necessario un filo di cinismo. Non dico tanto. Un filo basta. Anche perché spesso non esiste peggior cinismo della retorica. Tra le migliaia e migliaia di immagini che ci sono giunte dall?inferno dell?Oceano Indiano, il ritoccato, l?artificiale, la posa, il tarocco fanno la parte del leone. Quelle che presentiamo qui, pur bellissime, lo testimoniano. Un difetto di realismo L?industria dell?immagine, infatti, si è trovata in questa occasione alle prese con un problema oggettivo: che la cosa da riprendere – il momento in cui tutta la tragedia aveva luogo, in breve lo tsunami – non è stata ripresa da nessuno. Bisognava allora trovare immagini suggestive, che potessero riassumere in sé tutto il significato della tragedia sostituendosi a quella che non c?era. E allora via alla foto d?arte di gusto americano, via al macabro-elegiaco, via all?horror surreale. C?è un difetto di realismo, come se i fornitori d?immagini e i loro compratori non volessero rassegnarsi alla realtà. La realtà, infatti, è che nessuno piange centocinquantamila morti. Le lacrime vanno in direzioni opposte. Ognuno piange il fratello, il bambino, la mamma, l?amico. La foto che più mi commuove l?ho vista su yahoo!, e rappresenta un angolo di muro con affissa l?immagine di un bambino disperso, quasi sicuramente morto. Avrà sì e no un anno, quel bambino, è grasso e bellissimo e sorridente. Quelle guance gonfie Ecco, a me – Luca Doninelli, di Milano – viene da piangere per quel bambino, non per i centocinquantamila morti. Le sue guance gonfie mi sono state portate via per sempre, anche se senza questa tragedia probabilmente non avrei mai saputo dell?esistenza di quel bambino. È una somma di lacrime particolari, in esse non c?è nulla di astratto. Probabilmente qualcuno tra i morti non verrà pianto da nessuno, perché non aveva fatto niente per farsi amare. Esiste gente così, gente che quando muore diciamo: finalmente. Io capisco che per un reporter è frustrante dover fare i conti con le tragedie particolari. L?impressione di fare dello sciacallaggio dev?essere forte. Come quando si chiede a chi è scampato: «Cos?ha provato in quel momento?» Allora vien voglia di cercare l?Immagine Emblematica, che però andrà dove non va il dolore, dove non vanno le lacrime. Il Cristo srilankese Ma l?immagine di Cristo disteso dentro una chiesa dello Sri Lanka devastata eppure illuminata da una luce speciale (quasi che dal paradiso Dan Flavin in persona, l?artista che fu il più grande genio della luce, fosse intervenuto con i suoi preziosi suggerimenti) ci sospinge verso altri pensieri. Guardate la faccia di quella scultura, i suoi tratti indiani. A me è venuto da dire: ecco, Cristo è questo. Sono questi tratti indiani, indonesiani, malesiani toccati, visitati da un dolore così grande. In altre parole: Dio ha visitato questa terra, Dio è stato qui. So che può apparire crudele, ma come si diceva all?inizio non si può non essere cinici – solo un po?. La rabbia piena di retorica di chi domanda a Dio un?illuminazione circa il senso di queste tragedie (è la rabbia di noi tutti, è la retorica di noi tutti) scaturisce da un sentimento di insopportabile verità. Il maremoto ha rivelato ciò di cui siamo fatti, che è niente. La gente che è morta sarebbe morta lo stesso, prima o poi. Non è la morte che ci fa rabbia. E nemmeno la concentrazione di morte. No, è il nostro nulla che ci fa orrore. Noi dipendiamo, siamo esseri dipendenti, e questa immensa disgrazia ce lo ha rivelato. Senza garanzie Siamo quelle mani levate che chiedono tutto, o meglio: chiedono pane, ma chiedendo il pane chiedono tutto. E tutto vuol dire amore, amicizia, perdono, giustizia, casa. Non solo: chiedono di poter riabbracciare i figli, i padri, le madri, le mogli, i nipoti scomparsi. Com?è possibile non poterli riabbracciare, com?è possibile non poter sfiorare di nuovo le loro mani? Senza il maremoto questi pensieri ci sarebbero, ma come flash momentanei in mezzo a una bella giornata di vacanza, come brevi sospetti dentro una vita piena di garanzie. Invece noi impariamo che la vita non sono le garanzie. Guardate attentamente l?albero che si specchia nello stagno dentro cui galleggia un cadavere. Il nostro occhio è attratto da quell?albero, non dalla morte e dalla desolazione che lo circonda. Aveva delle garanzie, quell?albero? Nessuna garanzia. Semplicemente, con lui lo tsunami non ce l?ha fatta. Quello che non muore Perché la morte ha una premessa, che è la vita. Per poter vincere, deve prima esserci la vita. Dunque, la vita viene prima. Noi guardiamo l?albero prima del cadavere, perché l?albero viene prima, perché la vita che c?è in quell?albero viene prima della morte che c?è nel cadavere. La vita non è nostra, e ci può essere tolta in qualsiasi momento, perché noi non ci apparteniamo. Questo genera l?ira in noi, i self made men, che ci risentiamo con Dio o con il suo simulacro per il nulla che siamo. Eppure, quel nulla che siamo che radici profonde ha! Così profonde che la morte stessa ha bisogno di queste radici per affermare le sue parziali vittorie. Che Dio ci aiuti a non smarrire la radice della vita, la nostra origine. Possiamo morire noi, ma che quell?origine viva: quell?origine che non è nostra, ed è così bella e così viva e così luminosa e sgargiante e commovente e pura. E nuova. Amen.


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