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Le Iene nel Sahara Ecco com’è andata

Il retroscena del servizio shock di Pablo Trincia

di Pablo Trincia

La scorta che sparisce all’ultimo momento e l’incidente a
300 chilometri dall’oasi più vicina. Il racconto del protagonista: «Ho visto disperati, altro che criminali» Mi trovavo in redazione in un pomeriggio di metà novembre, quando Mauro, un autore delle Iene, mio vicino di scrivania, si girò e mi chiese: «Ti va di andare nel Sahara a raccontare il viaggio dei migranti africani verso l’Italia?». Rimasi di sasso. Era uno di quei servizi che sognavo di fare da quando avevo cominciato a muovere i primi passi da giornalista, ma allo stesso tempo mi rendevo conto che un pezzo del genere comporta anche una serie di rischi non indifferenti. Quanto sarebbe costato? Avremmo visto e filmato qualcosa di concreto? Avremmo incrociato qualche camion nel deserto? Ci avrebbero dato i permessi? A chi potevamo chiedere un aiuto? Di chi ci potevamo fidare?

Ci è sparita la scorta
Così è cominciata una lunga serie di telefonate, fax ed email verso l’Italia e il Niger. Fotografi e giornalisti che c’erano stati. Ong. Funzionari del ministero dell’Interno nigerino, poi di quello della Comunicazione, poi di quello del Turismo. Consoli. Sindaci. Militari. Autisti. E così via. Mano a mano che l’agenda si riempiva di numeri scarabocchiati a penna, i problemi e i dubbi sulla fattibilità del progetto aumentavano.
La rotta dei migranti dall’ultima città nigerina di Agadez fino al confine con la Libia prevedeva l’attraversamento di un bel pezzo di deserto fino all’oasi di Dirkou – sempre in Niger – dove molti di loro restavano bloccati dopo essere stati derubati da ladri e trafficanti, o, una volta attraversato clandestinamente il confine, respinti dai soldati libici. Il viaggio da Agadez fino all’oasi richiedeva due giorni di traversata del deserto. Programmammo di arrivare fino a Dirkou, per poi tornare indietro. Ma quella rotta viene effettuata dai convogli di clandestini solo un paio di volte al mese.
I camion si muovono come branchi di elefanti, nessuno parte da solo per evitare di restare in panne in mezzo al nulla, in balìa della sete e dei gruppi di banditi armati che si nascondono tra le dune. Perciò era necessario conoscere il giorno esatto della loro partenza, altrimenti avremmo rischiato di non vederne nemmeno uno. E ognuna delle persone che chiamavo mi dava una data diversa: «Il 27». «No, no, partono il 26». «Macché, si muovono il 24». «Il mese scorso sono partiti il 28». Non solo. le autorità locali ci avevano avvisato che per effettuare la traversata era obbligatorio viaggiare con una scorta armata che ci accompagnasse: 18 militari, un capitano e un comandante, ai quali andavano pagate due macchine, la benzina, il cibo e un lauto compenso, senza contare le mance.
La partenza era fissata per il 24 dicembre, ma due giorni prima fummo informati che, causa elezioni, i militari non ci avrebbero più accompagnati. Quindi niente scorta, niente deserto. Nessuno ad Agadez ci avrebbe affittato un 4×4 se ad accompagnarci non ci fosse stato almeno un uomo armato. Salimmo sull’aereo per il Niger senza un piano. Sudavo freddo.
Una volta atterrati all’aeroporto di Niamey, mentre aspettavamo in fila per il controllo passaporti, sentii una voce che mi chiamava: «Monsieur Pablo!». A pochi metri da me c’era un militare in divisa che si sbracciava. Era Omar, fratello di un commerciante nigerino che abita Roma, e che avevo contattato qualche giorno prima dalla redazione, in una delle decine di telefonate in cerca di contatti. Non l’avevo mai visto né sentito. Eppure Omar era lì per noi. Aveva combattuto tra i ribelli tuareg, conosceva i soldati ai posti di blocco e aveva percorso il Sahara decine di volte. Nell’oasi ci avrebbe portati lui. Fu una vera benedizione dall’alto.

Deserto, a noi
Una volta entrati nel deserto restava da capire come avremmo fatto ad incrociare i camion dei clandestini, fondamentali per portare a casa un servizio degno del nostro viaggio. Per un giorno intero non ne avremmo visto nemmeno uno. Eravamo tesissimi. Poi, mentre dormivamo accampati su una duna, ci svegliò il rumore di un motore a svariati chilometri di distanza. Un camion. Poi, dopo qualche ora, un altro. Poi un altro ancora. Avevamo incrociato il convoglio che riportava i migranti verso sud. Ne avremmo visti per tutto il giorno successivo, salendoci sopra e raccogliendo testimonianze.
Eravamo tanto euforici che quando ci si ruppe la macchina a 300 chilometri dall’oasi, non ci preoccupammo nemmeno delle possibili conseguenze: restare bloccati per giorni nel deserto, con poca acqua e nessun aiuto. Ma in quel momento non ci importava più di tanto. Avevamo tanto, tantissimo materiale: storie piene di drammi e di speranza, di uomini e donne bloccati in una terra desolata e dimenticata da tutti. E l’avremmo potuto raccontare in prima serata sulla tv nazionale, a dispetto di chi troppo spesso considera questi disperati dei criminali da rimandare indietro senza “se” e senza “ma”.
La macchina, dopo ore di riparazioni, ripartì verso l’oasi di Dirkou. Ma noi, con la testa, eravamo già a casa.


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