Volontariato

Le grandi opere di cui abbiamo bisogno

di Giulio Sensi

Non tutti saranno d’accordo, ma pensare che il nostro Paese verrà rilanciato dalla grandi opere infrastrutturali (alta velocità, mega cantieri, infrastrutture energetiche, autostrade etc.) è una grande illusione che alcuni sostengono in buona fede e altri in malafede e a loro vantaggio.

 

Non saranno i miliardi spesi per nuove strade, che magari per carità sarebbero anche necessarie, a dare quella scossa di cui l’Italia avrebbe bisogno. Non saranno trivelle, gasdotti, inceneritori, rigassificatori a costruire un futuro diverso.

L’amico Gianfranco Marocchi, cooperatore e infaticabile attore insieme ad altri di progetti di messa in rete del mondo cooperativo e delle loro idee, lancia con il solito garbo una provocazione in un dibattito durante la Fiera dei Beni comuni a Napoli. Quali sono le grandi opere di cui abbiamo veramente bisogno?

Ha ragione e dovremmo prendere atto, ma a fatti, non a parole. Le grandi opere di cui abbiamo bisogno non sono quelle che l’immaginario e la retorica politica ci stanno proponendo da diversi anni. Ma sono e dovrebbero essere i grandi progetti di trasformazione del territorio da cui far nascere una diversa idea di economia, una diversa concezione dello stare insieme, una reale innovazione sociale.

Non saranno le colate di cemento, ma le colate di civiltà a tirarci fuori dal declino. Stiamo diventando un paese ricco popolato da poveri. Ricco di risorse immateriali che potrebbero generare reddito, ricco di ricchezza mal distribuita, ricco per i pochi che hanno i soldi e stanno cercando di acquistare tutto a saldo. Ricco di risorse dormienti, con uno stile di vita che non può più permettersi e povero, estremamente povero, di opportunità.

Non mi piace scrivere in retorica politichese, ma oggi ne ho un po’ bisogno. Perché non è scontato dire che ci vorrebbe un grande piano per il rinascimento che prenda atto che non servono più soldi, ma più idee e capacità. Con una piccola percentuale di quello che lo Stato spende in grandi opere infrastrutturali si potrebbe far risorgere cento città con cento progetti nati dal territorio e non dai suoi politici.

Ma non è solo un problema di spesa statale. Serve fare tutto quello che stiamo facendo in un modo radicalmente diverso. Tutti: privati pubblici, primi secondi, terzo quarti settori e via dicendo.

Un esempio per intenderci: le nostre belle città ancora piene di turisti offrono un’occasione ghiotta per chi le abita di prendere l’unica vera ricchezza ancora esistente almeno sulla carta, vale a dire le case, e metterci a dormire i ricchi turisti specie stranieri. Bene, ma il ricovero per i turisti non genera innovazione, casomai genera riposo se dormono bene. Ma non esiste ancora un’idea di turismo, di servizi, di alleanza con il pubblico e fra privati per offrire un ospitalità che dia l’opportunità per entrare dentro un territorio e la sua storia e non solo per guardare le belle facciate delle chiese. Quanto si potrebbe fare se ci rendessimo conto che servono delle grandi opere per ridisegnare i nostri territori e le nostre comunità.

Rivitalizzare piazze, quartieri, luoghi, storie, patrimoni, territori abbandonati che vanno in rovina: le colline che crollano al primo acquazzone non sono solo un pericolo per la sicurezza, sono anche una grande occasione sprecata di cura del territorio per offrirlo ad una concezione pure economica dei beni comuni che generi anche ricchezza materiale e scambio. Perché guardate che le grandi opere dovrebbero essere tutte quelle che possiamo avere in comune, non quelle che creano un paese a doppia velocità.

Non ci siamo ancora resi conto, e la politica non riesce proprio a farlo, che non ci salveremo rincorrendo industrializzazioni o riprese impossibili, ma guardando ai territori come generatori e riattivatori di ricchezza. Ci sono tanti esempi che lo dimostrano -per conoscerli basterebbe solo andare a vedere il pregevole lavoro di Labsus sui beni comuni-, dovrebbero diventare una priorità ad alti livelli.

Allora questo piano per le grandi opere ci farebbe rendere conto che nonostante le illusioni la ripresa che possiamo raggiungere non è tanto quella economica, ma quella civile. Perché sbloccare l’Italia non dovrebbe significare togliere le regole, ma ricostruire la civiltà. Un piano per le grandi opere civili: il nostro valente è tanto celebrato terzo settore è in grado di richiederlo e costruirlo?

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