Il pallone gonfia la rete, che si tende ed emette un rumore sordo, al contatto con il cuoio. Milito segue la traiettoria di quel proiettile che ha appena scagliato, dopo aver ricevuto da Snejder un passaggio felpato e geometrico, esattamente lì dove solo lui, il Principe, poteva arrivare come un falco per concludere senza neppure il tempo di aver paura di sbagliare. Io ero lì, a trenta metri, non di più. Il primo gol della finale di Madrid non lo dimenticherò mai. L’ho visto, e l’ho sentito, l’aria vibrava degli sguardi ipnotizzati di tutti noi, che abbiamo compreso subito che quello sarebbe stato gol, e lo hanno intuito in un istante anche loro, i tifosi dalle maglie bianche e rosse, piazzati a muraglia proprio dietro la porta, impietriti e increduli di fronte a una prodezza prevista e temuta, ma improvvisamente diventata reale, con il portiere inutilmente proteso a impedire che il destino si completasse, così come era scritto da tempo.
Non c’era commento televisivo, solo il silenzio e l’urlo, il balzo del cuore nel petto, la ricerca di un abbraccio e di un bacio, e poi lo sguardo verso la nostra curva, impazzita di gioia. Tutto vero, tutto vissuto lì, a pochi metri dai giocatori, in una tribuna difficile da raggiungere, come avevo previsto e scritto, eppure bellissima per posizione e visuale, appena sopra il terreno di gioco, verde e pettinato come un biliardo, appena sopra le teste dei cameramen e dei commentatori televisivi, appena sopra le panchine, con Mourinho sempre in piedi, al limite estremo dell’area tecnica. Ero lì, e ho sofferto, gioito, condiviso emozioni e certezze, dubbi e scaramanzie, preoccupazioni e cronometri.
E tutto era cominciato molto prima, in un sabato assolato e splendidamente caldo, offerto da una città che ha fatto largo a noi e agli amici di Monaco, concedendoci piazze e pasei, bar e ristoranti, panchine e tavolini. Un enorme bar sport, al quale ci siamo seduti, accovacciati, incrociati, decidendo di volta in volta se bere acqua, più saggiamente, o birra, non foss’altro che per tenere la distanza con i bavaresi, che continuavano dalla sera prima ad innalzare il tasso alcolico, forse per anestetizzarsi, per vivere senza troppo dolore il momento previsto, quando il matador decide che è giunta l’ora di chiudere l’agonia e colpire al cuore.
Una giornata immensa, lunga, con l’arrivo di amici da ogni parte, con quel piccolo corteo di carrozzine, di persone disabili venute da ogni parte, facce note e nuove, volti tesi e sorridenti al tempo stesso. “Niente paura”, come canta Ligabue, eppure con il passare delle ore la tensione cresce, lenita dai cori che rimbalzano di strada in strada. “Facci un gol, Diego Milito facci un gol…”. E poi il mantra della cantilena dedicata a Josè Mourinho. E poi quel “conquistiamo Madrid…” che entra in testa e attraversa le viscere, nenia tribale di un esercito ingenuo e affettuoso, bella gente che mi batteva il cinque: “Ma tu sei il giornalista che si è battuto per i posti dei disabili? Bravo, hai fatto bene, e ce l’hai fatta!”,
Sì, sono io e ce l’ho fatta. Alla fine saranno quasi quattromila chilometri in macchina, guidati tutti da me, perché la mia compagna, ottima navigatrice peraltro, non se la sente di guidare il mio vecchio Scudo col cambio automatico. Lo parcheggio proprio davanti al Santiago Bernabeu, e gli scatto una foto. Gli voglio bene, non è solo una macchina, è il simbolo della mia libertà, e della mia impresa, piccola e grande.
Ho avuto ragione, dovevo venire, vedere, annusare l’aria, e poi raccontare. Lo stadio è bello ma scomodo: avevo ragione, per arrivare alla splendida tribuna c’è prima una discesa con una pendenza folle, e subito dopo una salita altrettanto ripida. Da soli non ci si riuscirebbe mai, qui l’autonomia non è ancora di casa. Ecco perché servono i volontari, o gli accompagnatori robusti. Poi si è ripagati da una posizione meravigliosa, senza ostacoli davanti a noi. Ma prima addirittura la paura di non poter entrare allo stadio, perché la polizia ha deciso all’improvviso di scompaginare l’organizzazione dell’Uefa, bloccandoci l’accesso al gate 48, quello stampato sul biglietto. Tutti al 52, allora. E invece no, perché il 52 è già pieno. E allora mi improvviso capopopolo, e in inglese convinco un addetto dell’Uefa a scortarci fino al cancello che ci spetta, solcando senza paura la folla di tifosi del Bayern, si apre un varco stupefatto per consentire a questo incredibile corteo di carrozzine nerazzurre di raggiungere la tribuna, a meno di due ore dall’inizio della partita. E così il sacro proposito di mettere interisti con interisti, e bavaresi con bavaresi, va a farsi benedire, e io mi trovo ad esultare accanto a un ragazzo paraplegico di Monaco, che impallidisce e si dispera. Naturalmente nessun pericolo di incidenti, anzi, si fraternizza subito e fino alla fine. E’ il bello del calcio a misura d’uomo, impensabile forse in Italia, ma qui magicamente vero per una sera. Notte magica, mi riempio di sensazioni mentre i nostri giocano e si attestano in quei venti metri proprio davanti a me, perché nel secondo tempo vicino alla nostra tribuna ci sono i Maicon e gli Stankovic, Julio Cesar e Zanetti, Lucio e Samuel, e poco più avanti il grande Eto’o.
Si soffre e si guarda l’orologio, e lo schermo gigante che rimanda le immagini come in televisione. Ma è meglio guardare lì, in mezzo al campo, fino a quella seconda perla del Principe Milito, che vedo da troppo lontano per coglierne tutto il valore tecnico, mi basta il boato che accompagna il tiro in diagonale, un ruggito che strozza e uccide la paura, ricacciandola nel limbo dei ricordi antichi. Questa notte è per noi, i campioni dell’Europa siamo noi. E’ finita e ancora non finisce, usciamo dallo stadio esausti, stremati, senza voce, eppure ancora in grado di cantare e di saltare, anche in carrozzina, ovviamente.
Io c’ero, e sentivo che c’eravate anche voi, in tanti, a condividere un sogno, non un’ossessione. Un sogno coltivato così a lungo da farmi venire i capelli bianchi, ma non importa. Quel giorno è venuto, ed è stato bellissimo.
Siamo risaliti in macchina, domenica, con calma. Abbiamo percorso l’autostrada bollente verso Saragozza e poi verso Barcellona, strombazzando felici ogni volta che incontravamo un’auto o un camper imbandierato di nerazzurro. Mai così tanti i disabili a una finale di Champions. Non è rimasto un posto vuoto. Ci ritroveremo a San Siro, come vecchi reduci, e non sarà mai più come prima. Perché noi, a Madrid, c’eravamo. E l’abbiamo alzata. Assieme al capitano. Assieme a tutti voi.
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