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Le due facce dello Zimbabwe
Da una parte la cronaca delle ultime ore, quella che riguarda la crisi politica in corso nello Zimbabwe e il colpo di Stato che ha rovesciato il novantatreenne presidente Robert Mugabe dopo 38 anni, dall’altra la realtà di un Paese in cui il 95% dei 12 milioni di abitanti è senza lavoro
Da una parte la cronaca delle ultime ore, quella che riguarda la crisi politica in corso nello Zimbabwe, dall’altra la realtà di un paese la cui popolazione è da troppo tempo allo stremo delle forze.
Ma andiamo per ordine. Con riguardo al colpo di stato che ha rovesciato il novantatreenne presidente Robert Mugabe, padre padrone dello Zimbabwe da trentotto lunghi anni ed in procinto di abdicare in favore della moglie Grace, più giovane di lui di quarantatré anni, le agenzie hanno battuto alcune notizie molto interessanti.
Così si apprende che ieri Mugabe ha incontrato nella capitale Harare il capo delle forze armate Constantino Chiwenga. La notizia appare anche sul sito del quotidiano filo-governativo The Herald che pubblica anche varie foto tra cui una che mostra i due protagonisti della crisi stringersi la mano sorridendo.
Dal canto loro i militari hanno confermato di essere in trattativa con il presidente Mugabe e si dicono certi di trovare presto una soluzione alla complicata situazione creatasi in questi giorni.
Lo scenario complessivo rimane comunque di difficile lettura e restano da chiarire ancora molti punti di questa vicenda: la sorte del ministro delle finanze Ignatius Chombo, l’identità dei “criminali” annidati nell’entourage di Mugabe verso i quali era rivolta l’azione militare che ha originato il golpe, il ruolo della signora Grace e, prima ancora, la destituzione del vice presidente del paese Emmerson Mnangagwa.
All’incertezza su come siano andate effettivamente le cose, corrisponde però la triste certezza sulla realtà dello Zimbabwe, ossia la povertà cronica in cui versa il paese.
Lo Zimbabwe sta affrontando una disastrosa crisi economica che sta facendo implodere quello che 30-40 anni fa era uno dei più promettenti paesi dell’Africa sub-sahariana, ricco di materie prime, diamanti, grandissime piantagioni di tabacco e terreni estremamente fertili. In molti non avevano avuto dubbi a definire il paese come il granaio dell’Africa.
Mugabe salì al potere nel 1980, quando il paese assunse il nome attuale e la sua indipendenza fu riconosciuta a livello internazionale e da allora lo Zimbabwe è lentamente sprofondato nel baratro. Oggi il 95% dei 12 milioni dei suoi abitanti è senza lavoro. Oltre 3 milioni sono coloro che hanno preferito emigrare e non a caso la principale voce del Pil del paese è costituita dalle loro rimesse di denaro che si attestano intorno ai due miliardi di dollari annui (cifra questa maggiore degli aiuti umanitari che nel 2015 si fermarono a 1,85 miliardi).
Una riforma agraria scellerata, la corruzione presente ad ogni livello, le sanzioni internazionali scattate per le gravi violazioni dei diritti umani, i bracconieri che avvelenano gli elefanti e tanto altre cose, hanno contribuito a piegare il Paese. Nell’ultima classifica annuale stilata dalla World Bank sulla facilità di fare business (Doing Business), si trova alla 159novesima posizione su 190.
Insomma, un paese a due facce: da una parte pochi ricchi che lottano per il potere, dall’altra i molti poveri che lottano per sopravvivere.
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