Professioni
Violenza al lavoro: le donne non denunciano anche perché non c’è una legge
Quasi un milione e mezzo di donne ha subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. Quasi nessuna ha denunciato. C’è un problema di consapevolezza, ma anche di certezza della pena. L’Italia temporeggia nel fare una legge dal 1996: così, intanto, difendersi dalle molestie non è facile, né scontato
Sono un milione 404 mila le donne che nel corso della loro vita lavorativa hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. Rappresentano l’8,9% per cento delle lavoratrici attuali o passate, incluse le donne in cerca di occupazione. A scattare la fotografia è l’Istat (qui i dati)
La percentuale di coloro che hanno subito molestie o ricatti sessuali sul lavoro negli ultimi tre anni è maggiore tra le donne da 25 a 34 anni e fra le 35-44enni. Un dato in linea con quello degli anni precedenti. le vittime di molestie e ricatti sessuali sono soprattutto donne e gli aggressori soprattutto uomini: si tratta di un dato su cui tutti gli studi concordano.
Ricatti vissuti in silenzio
Quando una donna subisce un ricatto sessuale, nel 80,9% dei casi non ne parla con nessuno sul posto di lavoro. E sono poche, meno dell’1% quelle che denunciano. L’87,7 % resta in silenzio e subisce, appena il 2,3 % ha contattato le forze dell’ordine e il 2,1% altre istituzioni ufficiali.
Le motivazioni più frequenti «per non denunciare il ricatto, osserva il report dell’Istat, «sono la scarsa gravità dell’episodio (27,4%) e la mancanza di fiducia nelle forze dell’ordine o la loro impossibilità di agire (23,4%)».
In un editoriale pubblicato su La Repubblica, la statistica Linda Laura Sabbadini riflette sulla mancanza di denunce: «È ancora terribile, anche perché spesso le donne non denunciano. Ciò avviene nell’87,7% dei casi anche se il ricatto subito viene considerato grave dalle donne. E così anche in questo caso domina l’impunità dell’autore».
La consapevolezza che ancora non c’è
«Quando parliamo di dati sulle molestie, partiamo sempre da una domanda: quanta consapevolezza c’è su cos’è o non è una molestia?», osserva Debora Moretti, Presidente di Fondazione Libellula. «Abbiamo ricevuto un’educazione scolastica su quando un comportamento diventa molestia? Poco. Offriamo sul posto di lavoro occasioni per parlarne e discuterne o preferiamo non “insinuare la pulce nell’orecchio”? Non molto. Per questo dobbiamo ricordarci che il dato che registriamo è al ribasso».
L’esperta sottolinea come ci siano «moltissime aziende che pensano che al loro interno non ci siano stati casi problematici perché non sono arrivate segnalazioni al reparto risorse umane o tramite whistleblowing. Ma ecco che magicamente emergono quando offriamo uno strumento di ascolto esterno e imparziale, come una survey e la Consigliera di Fiducia».
Abbiamo ricevuto un’educazione scolastica su quando un comportamento diventa molestia? Poco. Offriamo sul posto di lavoro occasioni per parlarne e discuterne o preferiamo non “insinuare la pulce nell’orecchio”? Non molto.
Debora Moretti, Presidente di Fondazione Libellula
Accrescere la consapevolezza verso il comportamento molesto (sia quando lo sta subendo che quando lo si sta agendo) è un lavoro culturale lento. Ma che l’Italia ha avviato. Come racconta (anche) la Survey L.E.I. (Lavoro, Equità, Inclusione) 2024, dal titolo “Ti Tocca”, condotta da Fondazione Libellula.
La legge nemmeno
C’è però anche un altro punto che merita una riflessione. Purtroppo difendersi dalle molestie non è facile, né scontato. Sul piano legislativo, infatti, il ritardo nell’affrontare queste problematiche è ormai cronico.
Un esempio su tutti: il progetto di legge su “Norme penali e processuali contro le molestie sessuali”, presentato in Parlamento nel 1996, è ancora lettera morta. Alcuni gruppi parlamentari, nella passata legislatura, hanno proposto di introdurre un reato “ad hoc” per le molestie, senza raccogliere i consensi necessari.
Sebbene esistano strumenti di tutela civile e lavoristica (art. 2087, art. 2043, art. 2049 così come il d.lgs. 198/2006), i comportamenti molesti connotati sessualmente non costituiscono una fattispecie di reato penale autonoma. Gli strumenti di tutela che potrebbero essere utilizzati sono quelli della legge sulla violenza sessuale che tuttavia coglie soltanto alcuni dei comportamenti. Per ovviare a questi “vuoti” normativi e dare attuazione a quanto previsto dalla Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) sono attualmente all’esame del Senato tre disegni di legge.
Se vince la paura
Le donne hanno molta paura. Paura di perdere il lavoro. Di non essere credute. Di dover affrontare conseguenze che sono ancora più grandi degli abusi subiti. Un freno alla segnalazione o alla denuncia è spesso rappresentato dal timore di non essere credute o di subire ritorsioni, che possono consistere nell’esser messe in ridicolo o considerate come delle rompiscatole, nell’essere emarginate dal gruppo, fino a subire bullismo o mobbing da parte del molestatore e dei suoi complici.
«Non esiste nemmeno una definizione univoca di “molestia” sul lavoro», osserva Marta Giaconi, giuslavorista dell’Università di Milano Bicocca. «Nell’elenco potrebbero rientrare i casi più gravi di violenza fisica, i palpeggiamenti, le aggressioni, i tentativi di accarezzare e baciare la donna contro la sua volontà, ma anche i commenti verbali, le telefonate oscene, le frasi umilianti, le battute a sfondo sessuale e qualsiasi comportamento che leda la sua dignità e trasformi il luogo di lavoro in un ambiente intimidatorio, ostile o degradante».
«Prima di interrogarci se le molestie siano tante o poche, prima di buttarci in frettolose considerazioni sul perché le vittime non denunciano, dobbiamo chiederci: cosa stiamo facendo per creare un clima di fiducia e ascolto libero da pregiudizi?», conclude Moretti.
Molestie non per sesso, ma per denigrare
«Spesso lo scopo principale delle molestie non è di ottenere soddisfazione sessuale. Domina invece la volontà di denigrare la donna, di trasformarla in oggetto sessuale negandole lo status di lavoratrice», osserva Patrizia Romito, docente di Psicologia sociale all’Università di Trieste nel libro scritto con Mariachiara Feresin “Le molestie sessuali. Riconoscerle, combatterle, prevenirle” (Carocci).
Durante gli stage e le alternanza scuola lavoro
Restano ancora largamente sottostimale le molestie che avvengono durante gli stage o in occasione delle esperienze di alternanza scuola lavoro. «Drammatico il caso di una ragazza che venne sedotta e molestata dal suo tutor aziendale senza che lei riuscisse a capire a fondo quello che stesse accadendo», osserva Cristina Obber, giornalista e formatrice esperta di violenza di genere. «Accresce la consapevolezza è proprio l’obiettivi di “Becoming”, uno dei progetti che l’esperta porta nelle scuole. «Ho incontrato le studentesse di alcuni centri di formazione professionale. Avere chiaro cosa si intende per molestie le aiuterà a riconoscerle sul nascere e a non subirle, a essere consapevoli dei propri diritti. Con gli alunni maschi è importante aiutarli a capire che la gravità di parole e azioni non si misura in base alle intenzioni ma in base al significato che portano con sé e alle loro conseguenze. Stimolare un dialogo tra i più giovani su ogni forma di violenza rappresenta una concreta possibilità per accelerare il cambiamento».
Stimolare un dialogo tra i più giovani su ogni forma di violenza rappresenta una concreta possibilità per accelerare il cambiamento
Cristina Obber, giornalista e formatrice esperta di violenza di genere.
Cosa c’è scritto nei contratti
Secondo uno studio Adapt condotto quest’anno, tutti i 30 contratti collettivi nazionali più applicati contengono almeno un rimando al fenomeno. (Violenza di genere: il contributo della contrattazione collettiva nella prevenzione e nel contrasto). Dall’analisi emerge che il 56% delle misure introdotte è riconducibile a iniziative volte alla prevenzione e al contrasto del mobbing e delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro, il 44% è indirizzato alla tutela specifica delle vittime di violenza di genere. Quindi è poco più della metà ad intervenire in modo diretto nei contesti lavorativi.
A livello aziendale invece c’è ancora molto margine di espansione, sono infatti soltanto 98 su 1.894 gli accordi che prevedono misure in materia (Fonte banca dati Farecontrattazione Adapt). Inoltre la contrattazione a livello aziendale, a differenza di quanto accade sul piano nazionale, concentra il proprio intervento nell’ambito della tutela alle vittime di violenza di genere, più che alla prevenzione sul luogo di lavoro: l’85% delle misure presenti è infatti finalizzato a proteggere in via diretta le vittime di violenza di genere, tramite strumenti come l’estensione del periodo di congedo retribuito (41%) e, in misura minoritaria, l’introduzione di previsioni quali la modifica dei recapiti aziendali (2%), il premio aziendale (4%)e l’anticipazione del Tfr (3%).
Il Network di Fondazione Libellula, di cui fanno parte oltre 100 aziende, (tra cui Alleanza Assicurazioni; Banca Etica; Barilla; Decathlon; E.on; Equita; Esselunga; EssilorLuxottica; Generali; Heineken; Lombardini22; Randstad; Sodexo; UNI; Unipol; Vodafone; Zeta Service; Zurich), sta sviluppando una serie di progetti per aiutare le donne a reagire. Ne abbiamo scritto qui
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