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Innovazione clinica

Le donne della ricerca

Sono 4 le italiane selezionate fra le 100 migliori scienziate al mondo. Ma come avvicinare i giovani (e in particolare le giovani) alla ricerca? Le testimonianze di due ricercatrici di Fondazione Don Gnocchi

di Sara De Carli

Federica Rossetto ha 36 anni, è psicologa e neuropsicologa. Si occupa di imaging in riabilitazione e di teleriabilitazione. È una ricercatrice della Fondazione Don Carlo Gnocchi di Milano: lavora con pazienti con patologie neurodegenerative come Parkinson e Alzheimer.

Alessia Gallucci invece ha 31 anni, anche lei è psicologa e ha un phd: lavora in Fondazione dal 2019 e oggi è principal investigator della prima unità di ricerca al Palazzolo. Lavora sull’uso di nuove tecnologie e intelligenza artificiale per identificare marcatori cognitivi e neuropsicologici precoci per la demenza.

Rossetto e Gallucci sono due giovani ricercatrici: pochi giorni fa al Centro Irccs S. Maria Nascente di Milano hanno partecipato alla Giornata della Ricerca 2023, nata per presentare e valorizzare il lavoro svolto dai numerosi ricercatori impegnati nei due Irccs della Don Gnocchi a Milano e a Firenze, come pure nelle altre strutture che la fondazione ha in tutta Italia.

Quest’anno il focus è stato dedicato ai giovani ricercatori, con una tavola rotonda su “come rendere la ricerca scientifica attrattiva per i giovani”. Ci piace raccontare le loro storie nel giorno in cui Research.com pubblica l’elenco delle prime 100 scienziate al mondo, che vede quattro donne italiane: Silvia Franceschi, direttrice scientifica del Cro di Aviano (20esimo posto); Speranza Falciano, dirigente di ricerca dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (62esimo posto); Eva Negri, epidemiologa, docente all’Università di Bologna (70esimo posto) e Silvia Priori, docente di cardiologia all’Università di Pavia (85esimo posto). L’elenco delle top 1.000 scienziate al mondo, conta altre 22 studiose che lavorano in Italia.

Ricerca, madre dell’innovazione clinica

Rossetto è in Fondazione Don Gnocchi ormai da 10 anni. Dopo la laurea in psicologia clinica all’Università Vita e Salute San Raffaele di Milano e dopo l’anno di tirocinio gratuito ha fatto quattro anni di dottorato, con una borsa di studio cofinanziata da Università Cattolica e Fondazione Don Gnocchi e poi, nel 2014, è rimasta come ricercatrice. «Ho due bambini, Anna di 6 anni e Diego di 11: mi sono laureata con il pancione, all’ottavo mese. Poi Anna è arrivata durante il dottorato», racconta. L’appuntamento irrinunciabile della giornata, per lei, sono «i caffè di laboratorio, momenti informali in cui parliamo fra colleghi, ci scambiamo punti di vista, intuizioni, vengono idee, nascono nuovi pensieri… rappresentano per me momenti importantissimi».

Per capire come avvicinare i giovani alla ricerca bisogna partire da cosa li allontana: la paura del futuro. I contratti precari e brevissimi, che rendono impossibile comprare casa e metter su famiglia. Gli stipendi che non riflettono né il livello di formazione raggiunto né le competenze acquisite

Federica Rossetto, ricercatrice in Fondazione Don Gnocchi

Per capire come avvicinare i giovani alla ricerca bisogna partire intanto da cosa i giovani li allontana: «È presto detto, perché mi ci scontro quotidianamente: la paura del futuro. I contratti precari e brevissimi, che rendono impossibile fare scelte come comprare casa e metter su famiglia. Stipendi che non riflettono né il livello di formazione raggiunto – parliamo di almeno dieci anni di alta formazione – né le competenze acquisite», dice Rossetto. Ed ecco che di riflesso è facile dire che cosa serve per far sì che più giovani scelgano la strada della ricerca (e la portino avanti): «Contratti stabili e stipendi adeguati ai livelli di formazione e di competenza raggiunti».

Federica Rossetto, ricercatrice

Rossetto all’inizio non immaginava che la ricerca fosse la sua strada, anzi. «Mi sono laureata in psicologia clinica proprio perché vedevo la ricerca come qualcosa di lontano da me, un mondo fatto di provette e cavie di laboratorio. Ci sono arrivata per caso durante la tesi e lì ho capito che la ricerca applicata non è quello che immaginavo ma il punto di partenza di qualsiasi innovazione che vediamo in ambito clinico, per esempio l’innovazione digitale, che permette di raggiungere i pazienti a casa, aumentando la loro qualità di vita. Raggiungere questa consapevolezza è stata la svolta: lì ho capito che la ricerca era la mia strada».

Vedevo la ricerca come qualcosa di lontano da me, un mondo fatto di provette e cavie di laboratorio. Quando ho capito che la ricerca applicata è il punto di partenza di qualsiasi innovazione in ambito clinico, ho trovato la mia strada

Federica Rossetto, ricercatrice in Fondazione Don Gnocchi

Oggi Rossetto sta lavorando in particolare a un progetto per persone con afasia primaria progressiva, una condizione rara. «Siamo nell’ambito della teleriabilitazione, con l’obiettivo di mettere a disposizione dei pazienti afasici trattamenti per la riabilitazione del linguaggio innovativi ma svolti a domicilio. È un discorso di accessibilità, sì, ma anche efficacia: questi pazienti hanno bisogno di trattamenti intensivi, personalizzati e di lunga durata. Il futuro è questo».


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Don Gnocchi voleva che venissero usati tutti i mezzi per aiutare i suoi mutilatini: questo come va riattualizzato e declinato oggi? «Con tutti i mezzi per me oggi significa essere al passo con i tempi e sfruttare il progresso tecnologico per migliorare, restare connessi sempre con i pazienti e le loro famiglie», risponde Rossetto. «L’eccellenza si realizza nel portare la ricerca al letto del paziente: noi partiamo sempre da un’analisi attenta dei bisogni, quelli clinici e di salute ma anche quelli psicologici e sociali. Progettare soluzioni che rispondono a questi bisogni significa ragionare sulla personalizzazione».

Dai “tutti i mezzi” di don Gnocchi al fare ricerca innovativa

«Della ricerca mi ha sempre attratto l’aspetto della clinica, sia quando svolgevo il dottorato e adesso in un Irccs: il punto fondamentale per me è fare ricerca con i pazienti e per i pazienti, facciamo ricerca per poter migliorare la diagnosi e a cascata la diagnosi precoce fa migliorare le possibilità di trattamento, la possibilità di avere piani terapeutici calati sui bisogni dei pazienti. La ricerca clinica ha valore intrinseco, l’idea del poter aiutare le persone». Così dice Alessia Gallucci, principal investigator di un’unità di ricerca di Fondazione don Gnocchi, dove si occupa di cronicità. Marchigiana di origine, 31 anni, si è laureata in psicologia in Bicocca a Milano e poi ha conseguito un dottorato di ricerca in neuroscienze cliniche. Ha fatto una visiting fellowship all’Imperial College London e alla Harvard Medical School: qui è teaching assistant di secondo livello in un corso sulla metodologia della ricerca. «Ho capito già durante la laurea magistrale di avere interesse per lo studio sperimentale. Le esperienze all’estero mi hanno permesso di conoscere anche l’altro lato della ricerca, non solo quello applicativo e di conduzione degli studi ma anche di progettazione, formazione, scrittura di grant».

Alessia Gallucci, ricercatrice

Della ricerca ama il fatto di essere continuamente stimolata, dal punto di vista intellettuale e personale: «La ricerca ti dà la possibilità di pensare, progettare, sviluppare idee innovative. Oggi l’innovazione è uno degli aspetti che viene più premiato e penso sia anche l’attualizzazione del mandato di don Gnocchi, che incitava ad usare “tutti i mezzi” per aiutare i suoi mutilatini: fare ricerca è proprio cercare di usare tutti i mezzi perché significa anticipare il più possibile la diagnosi e le proposte di trattamento, garantire accesso ai trattamenti per i pazienti ma anche assistenza per i familiari e i caregiver. Tutti i mezzi per me è scrivere progetti di ricerca innovativi nell’ambito della presa in carico della cronicità».

Il punto fondamentale per me è fare ricerca con i pazienti e per i pazienti. Facciamo ricerca per poter migliorare la diagnosi e a cascata la diagnosi precoce permette di migliorare le possibilità di trattamento e di avere piani terapeutici calati sui bisogni dei pazienti. La ricerca clinica ha valore intrinseco: l’idea del poter aiutare le persone

Alessia Gallucci, ricercatrice in Fondazione Don Gnocchi

In Don Gnocchi nel 2019, la prima attività di Gallucci è stata nella “rete Irccs Aging“, che riunisce 13 Irccs che si occupano di invecchiamento in maniera trasversale, dagli studi sui biomarcatori, alla clinica. I temi dell’invecchiamento restano al centro dei suoi interessi di ricerca, anche ora che guida la sua unità: «Non parlerei di una sfida del momento: ogni progetto ha dentro la sua sfida, che sia il reclutamento del pazienti, il rapporto costante con il Comitato etico, la ricerca di fondi, la costruzione della rete dei servizi sul territorio».

Avvicinare i giovani significa rimuovere le criticità oggi esistenti: poter essere valorizzati, avere una carriera chiara e trasparente, poter avere la responsabilità dei progetti, scrivere articoli e comparire tra chi li firma

Alessia Gallucci, ricercatrice in Fondazione Don Gnocchi

La mancanza di percorsi di carriera trasparenti e chiari, gli ostacoli nell’avere la responsabilità dei progetti che seguono, la mancanza di valorizzazione sono per Gallucci  gli elementi che tengono lontani i giovani dalla ricerca: «Va da sé che avvicinare i giovani presuppone la rimozione di queste criticità: dare la possibilità di essere valorizzati, che la carriera sia chiara e trasparente, la possibilità di avere responsabilità dei progetti, di scrivere articoli e comparire tra chi li firma, ricevere supervisione da ricercatori senior e poter supervisionare ricercatori ancora più junior».

Foto da ufficio stampa Fondazione Don Gnocchi


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