Famiglia

Le differenze socio-economiche? Si potrebbero eliminare all’asilo nido

L’offerta dei servizi per l’infanzia in Italia è a macchia di leopardo - raccontiamo su Mornig Future -, con dati preoccupanti in alcune regioni, secondo il Rapporto Ocse. «L’asilo in contesti difficili può cambiare tutto il percorso scolastico dei bambini, ma in Italia siamo ancora molto indietro» commenta Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save The Children Italia

di Luca Cereda

L’Italia non ha mai raggiunto l’obiettivo europeo di Barcellona – vecchio ormai di 20 anni – di garantire ad almeno il 33% dei bambini sotto i 2 anni la frequenza di un servizio educativo per la prima infanzia. Il nostro Paese è inchiodato al 13,7%, e lontanissimo anche dal nuovo target che l’Europa si è imposta del 50% da centrare entro il 2030. Save The Children, l’ong che si dedica alla tutela e allo sviluppo dell’infanzia nel mondo, guardando ai dati del Rapporto OCSE 2022, spera che questo sia l’anno della svolta, grazie alla spinta del PNRR e alla norma della Legge di Bilancio 2022 che ha definito “livello essenziale delle prestazioni” (Lep), da raggiungere gradualmente fino al 2027, la frequenza di un asilo nido o un servizio integrativo in ogni Comune da parte di almeno 33 bambini di 0-2 anni su cento.

L’Italia è indietro, tanto, ma va detto che nell’ultimo periodo ha lavorato moltissimo, come ha riconosciuto anche l’Unesco.

Per garantire gratuità e universalità degli asili nido, servirebbe però un investimento di 5,5 miliardi ogni anno. Se si considera uno scenario più realistico, nel quale universalità e gratuità sono garantite per il terzo anno di età, mentre per il secondo anno di vita la gratuità è riservata soltanto ai figli di genitori entrambi occupati (o in cerca di occupazione), avremmo un costo lordo a carico dello stato di 4 miliardi. «L’Italia è indietro, tanto, ma va detto che nell’ultimo periodo ha lavorato moltissimo, come ha riconosciuto anche l’Unesco. Il governo Draghi nell’ultimo anno ha investito 4,9 miliardi nell’infanzia di cui 3 nei nidi. Ma il tema di fondo è questo: le diseguaglianze economiche che aumentano si ripercuotono accrescendo il divario sociale ed educativo e la difficoltà di accesso agli asili dei bimbi, aumenta le povertà familiari, quella economica, ma anche quella educativa», spiega Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa Save The Children.

Una situazione difficilissima, da recuperare anche perché gli asili si sono ridotti del 6% dal 2014 al 2020, e presentano una grande disparità territoriale, lasciando meno presidiate proprio le regioni del Mezzogiorno che ne avrebbero più bisogno. La frequenza degli asili nido – anche secondo la XIII edizione dell’Atlante dell’infanzia a rischio” – può garantire migliori risultati scolastici, occupazionali, economici, di salute e di benessere, così come minor incidenza di devianza e di dipendenza dai sussidi. Come se agissero da potenti “riequilibratori” in caso di situazioni familiari difficili. «Il punto è che l’offerta in termini di ore di alcune regioni italiane è squilibrata rispetto alla media OCSE, tipo in Sicilia. Se parliamo di servizi per i primi 1.000 giorni di vita dei bambini fino ai 3 anni, gli asili nido coprono il 14,5% dell’offerta pubblica – aggiunge Raffaela Milano –. La definizione di un livello essenziale delle prestazioni per raggiungere il 33% della copertura dei servizi in ogni ambito territoriale e l’assegnazione di rilevanti risorse nell’ambito del PNRR per la costruzione di nuovi asili rappresentano passi avanti significativi. Le disuguaglianze educative si manifestano perciò ancor prima della scuola elementare, i divari cominciano già nelle famiglie di origine, per cui nelle scuole dell’obbligo sono ormai consolidati. Oggi in Calabria solo 2-3 bambini su 100 accedono per esempio all’asilo nido: chi vuole fare davvero un’offerta attiva sul servizio pubblico, deve fare allora un investimento sui servizi educativi che offrano educatori ed educatrici formati, anziché insistere sui baby parking. Un buon inizio educativo può cambiare tutto il percorso scolastico dei bambini in contesti difficili».

La povertà educativa deriva da quella economica e sociale

Le famiglie in povertà assoluta secondo Istat nel 2021 risultano 1 milione 960mila, pari a 5.571.000 persone (il 9,4% della popolazione). L’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno (il 10%, dal 9,4% del 2020): una crescita che tra il 2019 e il 2021 è salita più della media toccando le famiglie con almeno 4 persone; le famiglie con persona di riferimento tra i 35 e 55 anni, le famiglie degli stranieri e quelle con un reddito da lavoro: «In questo lasso di tempo è cresciuto in modo parallelo anche il peso della povertà educativa. I dati parlano chiaro – prosegue Milano -: la percentuale media di chi possiede al massimo la licenza media è passata dal 57,1% al 69,7%, gruppo in cui si contano anche persone analfabete, senza alcun titolo di studio o con la sola licenza elementare. I numeri arrivano rispettivamente a toccare l’84,7% e il 75% per le regioni insulari e del Sud, dove, ricordiamo, l’incidenza di italiani è maggiore. Per questo, secondo l’OCSE, l’Italia si caratterizza come uno dei Paesi a più bassa mobilità educativa in Europa. Per i nati in famiglie in fondo alla scala sociale (nell’ultimo quintile di reddito) diminuiscono le chance di riscatto: solo l’8%, tra chi ha i genitori con la licenza media, ottiene un diploma universitario (la media per l’OCSE è del 22%). Il 28,9%, invece, resta proprio nella stessa posizione sociale dei genitori, perpetuando la povertà educativa da una generazione all’altra: l’istruzione acquisita è uno dei principali elementi che favorisce la mobilità sociale, ma è pur vero che è un fattore condizionato dalla situazione “di partenza”. È dall’asilo che si inizierebbe a scardinare questo meccanismo, ma l’accesso è sempre più complicato, laddove è possibile».

L'articolo continua su Morning Future.

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