Economia
Le comunità fioriscono quando sono capaci di cooperazione
«L’impresa famigliare, le cooperative, Adriano Olivetti, si spiegano prendendo sul serio la natura cooperativa e comunitaria dell’economia», spiega Luigino Bruni
Le comunità fioriscono quando sono capaci di cooperazione. Se non avessimo iniziato a cooperare (agire insieme) la vita in comune non sarebbe mai iniziata, e saremmo restati evolutivamente bloccati alla fase pre-umana. Ma come spesso succede per le grandi parole dell’umano, anche la cooperazione è ad un tempo una e molteplice, spesso ambivalente, e le sue forme più rilevanti sono quelle meno ovvie. Tutte le volte che esseri umani agiscono insieme e si coordinano per raggiungere un risultato comune mutuamente vantaggioso, abbiamo a che fare con la cooperazione. Un esercito, una liturgia religiosa, una lezione a scuola, un’impresa, l’azione di governo, un sequestro di persona, sono tutte forme di cooperazione, ma si riferiscono a fenomeni umani molto diversi tra di loro. Da ciò deriva una prima conseguenza: non tutte le cooperazioni sono cosa buona, perché ci sono cooperazioni che sebbene aumentino i vantaggi dei soggetti coinvolti peggiorano il bene comune perché danneggiano altri al di fuori di quella cooperazione. Per distinguere la buona dalla cattiva cooperazione è necessario innanzitutto guardare agli effetti che quella cooperazione intenzionalmente produce sulle persone esterne a quella cooperazione.
Lungo la storia, le teorie politiche ed economiche si sono suddivise in due grandi famiglie. Quelle che partono dall’ipotesi che l’essere umano non è naturalmente capace di cooperare, e quelle che invece rivendicano la natura cooperativa della persona. Il principale rappresentante della seconda tradizione è Aristotele: l’uomo è animale politico, cioè capace di dialogo con gli altri, di amicizia (philia) e di cooperazione per il bene della polis. L’esponente più radicale della prima tradizione dell’animale insocievole è Thomas Hobbes: “E’ vero che alcune creature viventi, come le api e le formiche, vivono insieme socialmente. Pertanto qualcuno vorrebbe sapere perché gli uomini non fanno lo stesso” (Il Leviatano, 1651). All’interno di questa tradizione anti-sociale si muove molta parte della filosofia politica e sociale moderna, mentre gli antichi e i medioevali (incluso San Tommaso) erano generalmente dalla parte di Aristotele.
Potremmo anche dire che la principale domanda della teoria politica ed economica moderne è stato tentar di spiegare come possano emergere esiti cooperativi a partire da esseri umani che non sono capaci di cooperazione intenzionale, perché troppo dominati da interessi egoistici. Molte teorie del ‘contratto sociale’ (non tutte) sono state la risposta della filosofia politica della modernità: individui egoisti, ma razionali, capiscono che è nel loro interesse dar vita ad una società civile con un contratto sociale artificiale. L’uomo naturale è incivile, e quindi la società civile è artificiale. La risposta della scienza economica moderna a quella stessa domanda sono le varie teorie della ‘mano invisibile’, dove il bene comune (‘la ricchezza delle nazioni’) non nasce dall’azione cooperativa intenzionale e naturale di animali sociali, ma dal gioco degli interessi privati di individui egoisti separati tra di loro. Alla base di queste due tradizioni ritroviamo la stessa ipotesi antropologica: l’essere umano è un ‘legno storto’ che, senza bisogno di raddrizzarlo, produce buone ‘città’ se è capace di dar vita a istituzioni artificiali (contratto sociale, mercato) che trasformano le passioni auto-interessate in bene comune.
È a questo punto che si svela un mistero del mercato. Anche la società di mercato ha una sua forma di cooperazione, alla quale però non è richiesta nessuna azione congiunta tra gli individui “cooperanti”. Quando entriamo in un negozio per acquistare del pane, quell’incontro tra l’acquirente e il venditore non è descritto né vissuto come un atto di cooperazione intenzionale: ciascuno cerca il proprio interesse e compie la contro-prestazione (denaro per pane; pane per denaro) solo come un mezzo per ottenere il proprio bene. Eppure quello scambio migliora la condizione di entrambi, grazie ad una forma di cooperazione che non richiede nessuna azione congiunta. Il bene comune diventa così la una somma di interessi privati di individui reciprocamente immuni che cooperano senza incontrarsi, toccarsi, guardarsi.
È all’interno dell’impresa dove invece ritroviamo la cooperazione intenzionale o forte, essendo l’impresa una rete di azioni congiunte e cooperative per obiettivi in massima parte comuni. Così, quando acquisto un biglietto Roma-Malaga, tra me e la compagnia aerea non c’è nessuna forma di cooperazione intenzionale ma solo interessi separati paralleli (viaggio e profitto); tra i membri dell’equipaggio di quel volo, però, deve esserci una cooperazione forte, esplicita e intenzionale. Da qui deriva che mentre (quasi) nessun economista scriverebbe una teoria dei mercati basata sull’etica delle virtù, sul lato delle teorie dell’impresa e delle organizzazioni sono ormai molte le ‘etiche degli affari’ fondate sull’etica delle virtù di Aristotele e Tommaso.
La divisione del lavoro nei mercati e nella grande società è una grande cooperazione involontaria e implicita; la divisione del lavoro dentro l’impresa, invece, è cooperazione in senso forte, un’azione volontaria congiunta. Il capitalismo di matrice anglosassone e protestante ha così dato vita ad un modello dicotomico, ad una riedizione della luterana (e agostiniana) ‘Dottrina dei due regni’. Nei mercati c’è la cooperazione implicita, ‘debole’ e non-intenzionale; nell’impresa, e in generale nelle organizzazioni, abbiamo invece la cooperazione esplicita, forte ed intenzionale – due cooperazioni, due ‘città’, profondamente e naturalmente diverse tra di loro.
Questa cooperazione non è però la sola possibile nei mercati. La versione europea della cooperazione nei mercati, in particolare di quella latina, era diversa, perché la sua matrice culturale e religiosa non era individualistica ma comunitaria. Qui la distinzione tra cooperazione ad intra (impresa) e cooperazione ad-extra (nei mercati) non si è mai prevalsa – almeno fino a tempi recenti. È questa la tradizione della cosiddetta Economia civile, che ha letto l’intera economia e società come una faccenda di cooperazione e di reciprocità.
L’impresa famigliare (in Italia ancora il 90% del settore privato), le cooperative, Adriano Olivetti, si spiegano prendendo sul serio la natura cooperativa e comunitaria dell’economia. Ecco perché il movimento cooperativo europeo è stata l’espressione più tipica dell’economia di mercato europea. Come lo sono (stati) i distretti industriali (da Prato per i filati, a Fermo per le scarpe), dove comunità intere sono diventate economia senza smettere di essere comunità. Così, il capitalismo USA ha come modello il mercato anonimo e cerca di “mercantizzare” (rendere mercato) anche l’impresa, che sempre più è vista come un nesso di contratti, una ‘commodity’ (merce), o un mercato con fornitori e clienti ‘interni’. Il modello europeo, invece, ha cercato di ‘comunitizzare’ (rendere comunità) il mercato, prendendo come modello di buona economia quello mutualistico e comunitario, esportandolo dall’impresa all’intera vita civile (cooperazione di credito e di consumo). Assumendosi i costi e i benefici di questa operazione: un’economia più densa di umanità e di gioia di vivere, ma anche di quelle ferite che gli incontri umani a tutto tondo portano inevitabilmente con sé.
Il modello USA oggi sta colonizzando anche gli ultimi territori di economia europea, anche perché la nostra tradizione comunitaria e cooperativa non è stata sempre all’altezza sul piano culturale e pratico, non si è sviluppata in tutte le regioni, e, in Italia, ha dovuto fare i conti con il trauma, non ancora del tutto elaborato, del fascismo si è auto-proclamato vero erede della tradizione dell’impresa cooperativa (il corporativismo). La ‘grande crisi’ che stiamo vivendo, però, ci dice che l’economia e la società fondate sulla cooperazione-senza-toccarsi può produrre dei mostri, e che il business che è solo business alla fine diventa anti-business. L’ethos dell’Occidente è un intreccio di cooperazioni forti e deboli, di individui che fuggono dai lacci delle comunità in cerca di libertà, e di persone che per vivere bene liberamente si legano. In una fase della storia in cui il pendolo del mercato globale tende verso gli individui-senza-legami, l’Europa deve ricordare, custodendola e vivendola, la natura intrinsecamente civile e sociale dell’economia.
da Avvenire 24/11/2013
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