Welfare
Le città del quarto d’ora
Lettera di una professoressa sulla città che verrà: «Siamo abituati a pensare in modo monodimensionale le città. Ora dovremo essere capaci di pensare ai luoghi e ai comportamenti delle persone molto più in relazione ai tempi. In secondo luogo, dovremo ridisegnare la relazione tra scala macro e micro locale. Guardiamo alla proposta politica di Anne Hidalgo, sindaca di Parigi: Ville du quart d’heure, la città del quarto d’ora»
Caro studente, cara studentessa,
siete i primi studenti nella storia del mio insegnamento che non conoscerò di persona, almeno in questi mesi di didattica. Ci sentiremo a distanza, condivideremo materiali, idee e opinioni, faremo piccoli gruppi sul web per confrontarci. Ma non avremo la disponibilità di un’aula reale, quella a cui siamo abituati, non potremo fare lavori di gruppo, soprattutto non avremo la possibilità di utilizzare i nostri strumenti abituali di lavoro: la passeggiata, l’esplorazione urbana, i sopralluoghi nella natura, la conoscenza diretta di luoghi, delle persone, l’osservazione dei comportamenti nello spazio.
Mi chiedo come faremo a riflettere di città, di spazi urbani, di futuro dei nostri ambienti di vita, stando chiusi a casa. Privati dell’oggetto del nostro studio, delle modalità più tipiche del nostro lavoro e della possibilità dello scambio diretto e del lavoro di equipe per come lo pratichiamo da decenni nel nostro lavoro, più bottega e laboratorio che brainstorming a distanza.
Il tema del corso – deciso prima che il covid19 si rendesse manifesto – sarà il seguente: “Come vivremo insieme?”, ispirato direttamente dal titolo della Biennale di Architettura di Venezia, 2020. Una domanda stata lanciata dal curatore e architetto Hashim Sarkis con questa aspettativa: “Chiediamo agli architetti di immaginare degli spazi nei quali possiamo vivere generosamente insieme”. Bellissima domanda, ma ora che viviamo questa quarantena planetaria, come possiamo essere capaci di immaginare luoghi dove vivere insieme? E dove vivere generosamente insieme?
Diffidate, ragazzi, di tutti quelli che in queste ore vi propongono scenari certi e cambiamenti radicali.
Nessuno può dire che cosa succederà. Il quadro è radicalmente incerto e nell’incertezza tutto può cambiare o tutto può rimanere esattamente com’è. Pensiamo ad altre minacce globali, come l’11 Settembre, l’attentato alle Torri Gemelle, pensiamo ai due anni di minacce del terrorismo internazionale legato all’ISIS, alla crisi economica del 2008. Anche in quelle situazioni molti studiosi avevano decretato la fine del modus vivendi occidentale, di un certo stile di vita ispirato alla prossimità e alla convivenza negli spazi urbani. In realtà, l’assetto delle città è cambiato poco, ci sono stati elementi di resistenza e di resilienza che hanno fatto sì che la vita nelle città dopo qualche mese di assestamento proseguisse, nonostante i pericoli e le minacce, in forme non dissimili rispetto al passato.
È chiaro che la minaccia del contagio e la diffusione di forme virali come quella che stiamo vivendo introduce un elemento di complessità in più: un virus mina la natura stessa delle vita in città, che è basata sullo scambio, la prossimità, la mescolanza, la convivenza serrata tra le persone. Può anche essere che il mondo saprà trovare nel giro di qualche mese il vaccino e l’allarme potrebbe in qualche modo rientrare, consentendo di ritornare gradualmente alle nostre abitudini. Ma sentiamo che alcuni aspetti della nostra percezione della vita e del rischio sono stati completamente alterati da questa esperienza. Il rischio vissuto sia sul piano personale, che su quello collettivo si è impresso nella nostra pelle di cittadini.
Non so come saranno le città, ma so che ci saranno richiesti due salti creativi.
iI primo ha a che fare con il tempo più che con lo spazio. Siamo abituati a pensare in modo monodimensionale le città. Ora dovremo essere capaci di pensare ai luoghi e ai comportamenti delle persone molto più in relazione ai tempi. Se il virus dovesse continuare a fare parte della nostra vita dei prossimi anni, non potremo certo tornare nelle catacombe o stare tutti chiusi a casa per sempre.
Dovremo immaginare che popolazioni diverse, bambini, anziani, giovani, frequentino gli stessi luoghi in orari differenti, così da evitare sovraffollamenti e ottenere quel distanziamento sociale che in questi giorni stiamo sperimentando in forme estreme. Potremo seguire l’esempio di Amsterdam che ha nominato un Sindaco della Notte, che si occupa della gestione della città dopo il calare del sole. Se l’obiettivo è rendere più rarefatte le relazioni in particolari momenti di crisi potremo immaginare accessibilità ai luoghi distribuite sulle 24 ore.
Potremo seguire l’esempio di Bogotà che proprio in questi giorni ha proclamato tre giorni di chiusura della città, in forma sperimentale, per studiare i comportamenti delle persone, gli effetti sociali ed economici, le capacità di risposta. E lo fa prima che ci sia l’emergenza vera, per riuscire meglio a gestire questo rischio che si somma a quello sismico e ambientale.
Oppure quello scandinavo che crea nella quarantena abbinamenti tra due nuclei familiari che possono aiutarsi e mantenere relazioni, evitando il totale isolamento dei singoli nuclei familiari.
In secondo luogo, dovremo ripensare la relazione tra scala macro e micro locale. Pensiamo alla proposta politica di Anne Hidalgo, sindaca di Parigi: Ville du quart d’heure, la città del quarto d’ora. Un modo innovativo di ripensare la Grande Parigi, come un puzzle di isole con una certa autonomia vitale. Un quarto d’ora è l’unità di misura del suo progetto, che immagina di ripensare la città intorno a servizi e funzioni raggiungibili dai cittadini a piedi o in bicicletta entro quel lasso di tempo. È una metafora stimolante. Riporta la città alla sua dimensione ad isole e comunità solidali, nelle quali siano presenti le scuole, i servizi al cittadino, i negozi e tutto quello che rende confortevole vivere in città, lasciando più possibile a casa l’auto. E che diventa cruciale nei momenti di crisi e pericolo per la salute.
D’altro canto, in questi giorni abbiamo capito quanta importanza abbia una razionale ed efficiente organizzazione territoriale dei servizi: i presidi medici, che abbiamo in questi anni smantellato con colpevole tenacia, e che sono stati l’anello più debole del contagio italiano, luoghi di ricovero, salute e soluzione dei problemi e al contempo primi focolai dei contagi.
Dovremo ripensare a come funzionano soprattutto in regime di emergenza. Dovremo ripensare alla relazione tra grande e piccola distribuzione, uscendo dalla odiosa logica (…)
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*architetto e urbanista del Politecnico di Milano, autrice di Biodivercity: Città aperte, creative e sostenibili che cambiano il mondo
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