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Le bare, la guerra e la pace

Il Paese si commuove per i funerali dei parà uccisi a Kabul, ma già si pensa a come restare in Afghanistan

di Franco Bomprezzi

Ancora una giornata nella quale i quotidiani dedicano aperture e numerose pagine ai parà uccisi a Kabul. I funerali di Stato, l’atteggiamento da tenere da qui in avanti, l’orientamento degli Usa rispetto alla guerra in Afghanistan sono gli argomenti più approfonditi.

“Lacrime e applausi per i sei parà”, dice in apertura il CORRIERE DELLA SERA di oggi. «I sei feretri sono stati accolti dall’invocazione: Folgore. Bossi: li abbiamo mandati noi e sono tornati morti. Un uomo è salito sull’altare e ha urlato: pace subito. Il comandante della missione alleata: Più truppe in Afghanistan o la guerra è perduta. Ed è polemica perché, secondo l’accusa del ministro Gelmini, in decine di scuole non è stato fatto osservare il minuto di silenzio per le vittime italiane». “Un gesto semplice e una cattiva lezione” è l’editoriale firmato da Aldo Cazzullo: «Resta l’amarezza per una scuola che (sia pure con molte eccezioni) riesce a trasformare anche un’occasione di unità nazionale in un punto di divisione; e soprattutto si ostina a leggere qualsiasi vicenda attraverso le lenti della politica, peggio ancora dell’ideologia. Tra le varie giustificazioni, colpisce quella della direttrice di una scuola romana: ogni caduto sul lavoro, non soltanto i militari, dovrebbe essere commemorato. L’obiezione è sottile, perché incrocia un’attitudine dell’opinione pubblica: mai come questa volta l’Italia ha reagito al lutto come un Paese normale, piuttosto che come un Paese emotivo. Ma proprio questa «normalità» implica che il rimpianto e la gratitudine per i soldati, uccisi in una missione di pace che conducevano in nome e per conto di tutti noi, unisca anziché dividere». Lorenzo Cremonesi prosegue nell’inchiesta per ricostruire la dinamica dell’attentato. L’ipotesi che fa oggi è che l’autobomba fosse senza kamikaze: «I primi risultati delle in­dagini sull’attentato contro il convo­glio italiano di Isaf fanno ritenere che l’auto carica di esplosivo fosse pratica­mente ferma. «Dallo studio sul cratere rimasto nell’asfalto si può dedurre che il veicolo fosse immobile, o comunque andasse molto lentamente. È un cratere quasi perfettamente quadrato, di circa due metri per due. Non si può ancora definire se l’auto fosse parcheggiata da tempo, magari vuota, e l’esplosivo innescato all’interno. Oppure un kamikaze fosse al volante, in attesa dei primi mezzi Isaf che capitassero a tiro», ci ha dichiarato il comandante del contingente Folgore a Kabul, colonnello Aldo Zizzo».

“L’addio ai caduti di Kabul”. Apre così LA REPUBBLICA che sottolinea la compostezza del dolore con il racconto di Attilio Bolzoni: “Quell’applauso senza lacrime”. A sottolineare che la grande partecipazione popolare alle esequie svoltesi ieri mattina nella Basilica di San Paolo ha rivelato anche una certa determinazione. Nella sua omelia, monsignor Pelvi, ordinario militare per l’Italia, ha detto «l’intera nazione ha dimostrato in questa difficile prova quanto siano saldi i valori di solidarietà e fraternità che caratterizzano la nostra Italia… Se uno stato non è in grado di proteggere la propria gente da violazioni gravi e continue, la comunità internazionale è chiamata ad intervenire». Ma non sono mancate voci diverse. La folla ha urlato «ritirateli» e un signore anziano, giunto davanti al microfono, ha scandito «pace subito, pace subito». Tra gli intervenuti, oltre ai politici e al presidente della Repubblica, anche esponenti delle comunità islamiche. Dubbi ha espresso nuovamente anche il senatur: “Bossi: votai anch’io ma non per farli morire”. Bossi, che ammette l’esistenza di un “problema americano”, esprime la speranza che almeno in parte i soldati rientrino dall’Afghanistan, mentre i ministri di origine aennina sottolineano il grande sentimento di unità nazionale che si è toccato con mano in questi giorni. Quanto alla situazione in Afghanistan,  Federico Rampini riferisce da New York del Rapporto del generale McChrystal al Pentagono (presentato a Obama il 30 agosto): senza rinforzi massicci perderemo la guerra afferma senza mezzi termini il Rapporto fatto trapelare, pare, dalle forze armate esasperate dalla lentezza decisionale della Casa bianca. Anche negli Usa del resto l’opinione pubblica è in maggioranza contraria alla guerra. Il Rapporto non se ne cura: «se non riprendiamo l’iniziativa e non riusciamo a contrastare la forza d’urto talebana in 12 mesi, rischiamo il fallimento». Chiude le pagine sull’Afghanistan, un reportage da Kabul di Renato Caprile. Una città di 4 milioni di abitanti, in cui non ci sono zone verdi, in cui nessun quartiere è difeso dagli attacchi: chi può permetterselo (ovviamente pochi) utilizza macchine blindate e si fa accompagnare da guardie del corpo (ci sono più di mille agenzie a Kabul). Gli altri fanno come possono. Nel frattempo, sembra che la Cia abbia mandato centinaia di agenti segreti (circa 700).

IL GIORNALE dedica tre pagine (9-10-11) ai funerali dei soldati italiani. Nella prima “L’Italia piange i suoi figli e Bossi non si dà pace: «li abbiamo mandati lì noi»”  di Massimiliano Scafi riporta la cronaca degli eventi. Nella seconda invece un articolo a tutta pagina di Renato Farina “Quel dono chiamato sacrificio” che sottolinea come sia importante la partecipazione e l’onorare i propri caduti, anche in chiave di politica internazionale. Secondo Farina infatti si è riproposta la situazione di Nassiriya che grazie a Ruini e Berlusconi fu affrontata e servì per non cadere nel gioco dei terroristi islamici: impaurirci. L’importanza di questi funerali di stato è evidente per Farina se si guarda alla Spagna. «Negli stessi giorni di Nassiriya in Spagna, l’uccisione di una pattuglia di uomini dei servizi segreti in Iraq, fu vissuta con vergogna. Vennero seppelliti alla chetichella, dopo funerali semiclandestini in un hangar dell’aeroporto. Fu la premessa dell’attentato dell’11 marzo del 2004 a Madrid: se ti pieghi quelli ti annientano». Nell’ultima pagina con un po’ di amarezza Francesca Angeli firma “Gli anti italiani che offendono il lutto di un popolo” raccontando episodi in cui l’ideologia va oltre la pietà umana e vieta le lacrime per motivi politici. È il caso di Caruso che dichiara «nessuna lacrima per questi morti» ma anche, e ancor più grave, di Simonetta Salacone preside di una scuola romana che non ha fatto fare il minuto di silenzio ai propri studenti. Da notare come la preside sia la stessa che poi porta gli stessi studenti in piazza a protestare.
 
Le immagini simbolo dei funerali di ieri, per AVVENIRE, sono la mamma del parà Roberto Valente, che con le mani giunte prega incessantemente e Martin, 7 anni, figlio del parà Antonio Fortunato. Il pezzo di cronaca sottolinea come nella basilica di San Paolo ieri si sia «stretto un paese intero», con la consapevolezza matura di quella «responsabilità di proteggere» anche i «più flebili segni di democrazia», anche in un paese straniero, di cui ha parlato nell’omelia monsignor Pelvi. Una consapevolezza che nemmeno il grido «pace subito» di uno sconosciuto ha spezzato. AVVENIRE rilancia chiaramente la necessità di rimanere quando commentando tale urlo scrive: «pace nel senso di starcene in pace, di tornare a casa, di tirarcene fuori . è la pretesa di chi non capisce come si può morire per un popolo lontano».

Il SOLE24ORE dedica ai funerali dei parà 5 pagine ma soprattutto la 2 e la 3 vedono pubblicate, come in una specie di sacrario, le fotografie di tutti i caduti nelle missioni all’estero dell’Italia, dal 1950 a oggi. Sono 138 e a loro il ministero della Difesa dedica un volume di 252 con un intervento del presidente Napolitano. Il SOLE, oltre alle foto in bianco e nero, pubblica anche tutti i loro nomi, date di nascita e morte e grado. A pagina 5 la foto-simbolo dei funerali, il piccolo Martin Fortunato accanto alla bara del padre, e la notizia del rapporto riservato sull’Afganistan in cui il generale McChrystal ammette che senza rinforzi la missione fallirà. Il SOLE sottolinea che autore dello scoop è il veterano Bob Woodward, proprio quello del Watergate, dal 1971 al Washington Post.

“Pace subito”. Un crocifisso viene portato via da due uomini della sicurezza con tanto di occhialoni neri: «Venga con noi e niente scherzi!». E’ la vignetta di Vauro in prima pagina su IL MANIFESTO, che apre l’edizione di oggi con una foto del funerale dei caduti in Afghanistan. Il titolo: “Exit tragedy”. Nell’editoriale “Le parole vietate” Gabriele Polo parla del senso di una guerra che si è «perso per strada», una confusione che si rispecchia nelle parole: «è vietato pronunciare la parola guerra, si abusa liberamente del termine pace fino a farne un espediente retorico. L’impasto da sentimentale diventa semantico e copre il vuoto della politica». Il nodo è proprio «il venire in luce di una politica irrisolta, che si è nascosta per anni dietro la generosità del “buon soldato italiano”, con i suoi reparti genieri, i suoi ospedali da campo, le sue caramelle per bambini». «Eppure quel che accade a Washington (nel bene) e a Kabul (nel male), potrebbe aiutare la politica del nostro piccolo paese. Ma per farlo bisogna ammettere una verità e dar vita a un proposito: c’è una guerra in corso, bisogna trattare la pace».

All’interno, accanto alla cronaca sui funerali, un pezzo racconta cosa sta succedendo a Washington. Ha fatto scalpore il rapporto del generale Stanley MacChrystal, comandante in capo dei soldati Usa e della Nato in Afghanistan, arrivato sul tavolo del Washington Post che domenica ne ha pubblicato alcuni stralci. Ci vogliono più risorse, è la sintesi del messaggio del generale, altrimenti la missione militare in Afghanistan «finirà verosimilmente con un fallimento». Non è certo se il rapporto intenda più uomini o solo più risorse finanziarie, IL MANIFESTO comunque evidenzia che domenica scorsa il presidente Obama si era mostrato «scettico» sull’invio di rinforzi. «Finché non sarò convinto che abbiamo la strategia giusta non metterò in pericolo la vita di giovani uomini e donne più di quanto già facciamo». Insomma, Obama frena sulla guerra, è la lettura de IL MANIFESTO.

Apertura de LA STAMPA dedicata ai caduti in Afghanistan con il virgolettato dall’omelia “Portavano pace, sono i nostri eroi”. Massimo Gramellini riflette sul “Lutto scorrevole”: «L’Italia dei telespettatori, la nostra Italia ha continuato a lavorare e vivere come sempre. Dove le uniche serrande abbassate erano quelle dei negozi chiusi per turno e molte scuole non avevano neppure la bandiera a mezz’asta. Tutti abbiamo dato un’occhiata ai telegiornali, alla ricerca di un pretesto per commuoverci, purché fosse un pretesto in grado di farci sentire meno bellicosi e più buoni. Lo abbiamo trovato in due bambini. Uno di due anni, l’innocenza assoluta, che indica la bara del papà quasi fosse un gioco. E l’altro di sette, l’infanzia resa adulta dal dolore, che corre sotto l’altare della chiesa per accarezzare il legno che racchiude le spoglie di suo padre. Ci siamo commossi, innaffiando il fazzoletto come il nostro premier in prima fila: stavolta ci ha rappresentati proprio tutti. Abbiamo pianto, ci siamo soffiati il naso. Poi abbiamo chiesto in cucina cosa c’era per secondo. (…) Il simbolo plastico del cambiamento rimane l’uso dell’applauso. Fu inventato per sottolineare un’approvazione, mentre oggi si direbbe che la sua funzione principale consista nel coprire i baratri aperti dal silenzio, questa brutta bestia che ci induce a pensare, quindi fa paura e va rimossa come la morte. Le persone che fuori dalla basilica applaudivano le bare erano convinte in buona fede di esprimere solidarietà. In realtà stavano scacciando il dolore che passava dinanzi ai loro occhi, temendone il contagio. Ci avete fatto caso che i familiari delle vittime, gli unici a soffrire davvero, non applaudono mai? Eppure sarebbe stucchevole rimpiangere il bel lutto che fu. Ogni epoca ha le sue rappresentazioni. La nostra ha espulso il sacro e con esso i riti comunitari che gli davano un’aura di credibilità. Si pattina leggeri sulla superficie, affastellando emozioni e mescolando ricordi: fra sei mesi non sapremo più se la tragedia di Kabul è accaduta prima o dopo quella di Nassiriya». 

E inoltre sui giornali di oggi:

BAGNASCO
CORRIERE DELLA SERA – “La Chiesa non può essere intimidita”,  ha detto Bagnasco di fronte al consiglio permanente della Cei. E sul caso Boffo: «La telefonata che il Santo Padre ha avuto la bontà di farmi, per raccogliere notizie e valutazioni sulla situazione contingente, e le parole di grande benevolenza che egli ha riservato al nostro impegno – sottolinea Bagnasco – ci hanno non poco confortato». «La Chiesa è in questo Paese una presenza costantemente leale e costruttiva che non può essere coartata né intimidita solo perché compie il proprio dovere». Quanto al biotestamento: «Il lavoro compiuto al Senato – spiega – è prezioso. La Cei auspica che la Camera non si lasci fuorviare da pronunciamenti discutibili».

LA STAMPA – A pagina 8 il richiamo dei vescovi: «I politici siano sobri» a cui Fabrizio Cicchitto, capogruppo dei deputati Pdl, risponde candidamente così: «Condivido quelle osservazioni sulla sobrietà, ma il cardinale ne parla sub specie aeternitatis, e cioè senza accenni a accadimenti contingenti».

LA REPUBBLICA – “La Chiesa non si farà intimidire alla politica chiediamo sobrietà”. Doppia pagina sul discorso del cardinale Bagnasco: una sferzata a Berlusconi, visto che l’intervento è aperto da un richiamo alla misura, alla sobrietà, all’onore che comporta una carica pubblica; il presidente della Cei prosegue richiamando la ferita del caso Boffo («un passaggio amaro… che ha finito per colpire tutti noi»). Chiosa Marco Politi: «la durezza e la fermezza della presa di posizione si inserisce in un discorso molto equilibrato… La denuncia chiarissima dell’inammissibilità dei comportamenti berlusconiani va di pari passo con la necessità di mantenere i rapporti istituzionali fra Chiesa e Governo (come chiede la Segreteria di Stato vaticana) in un clima di normalità istituzionale». Non mancano riferimenti all’unità d’Italia e l’invito ai giovani cattolici a impegnarsi in politica. Nel retroscena, Massimo Giannini sottolinea come la Cei si sia affrancata dalla longa manus del cardinale Bertone. La Cei non è disposta a trattare sui temi etici e smette di essere pregiudizialmente favorevole al centrodestra.

IL GIORNALE – Andrea Tornielli, vaticanista del quotidiano milanese firma “Bagnasco snobba il gossip: giudicare il governo sui fatti”. Nell’articolo si prende atto di come i vescovi italiani guidati da Bagnasco abbiano riportato, dopo il caso Boffo, i rapporti con l’esecutivo nel quadro della serenità istituzionale, senza attacchi o strascichi. Tutto questo perchè «la Chiesa resta amica delle istituzioni anche quando critica» e sopratutto perchè «si giudica un governo sui fatti e non sul gossip».

IL MANIFESTO – “Il monito ai politici: Siate più sobri”. IL MANIFESTO dedica una pagina e un box in un’altra sezione del giornale (quella sui migranti) al discorso del capo della Cei. “Bagnasco e il dopo Boffo: una ferita per la chiesa” è l’occhiello del pezzo, che peraltro si limita a riportare le dichiarazioni del cardinale, scrivendo alla fine che è solo con questa prolusione e, prima, con le dimissioni di Boffo, che comincia l’era del dopo-Ruini. Sui migranti un box che sottolinea un passaggio del discorso: “Bagnasco: ‘usare il modello badanti'”, l’esigenza sottolineata dal presidente della Cei di trovare «soluzioni internazionali e multilaterali» sulla questione migratoria e di implementare «dispositivi meglio calibrati, come opportunamente è stato fatto per le badanti».

AVVENIRE – Il quotidiano dei vescovi sceglie di dedicare quattro pagine alla apertura del Consiglio permanente della Cei, avvenuta ieri, pubblicando integralmente la prolusione del cardinal Bagnasco. È la prima riunione ufficiale plenaria dei vescovi italiani dopo il caso Boffo e infatti Bagnasco dice che la Chiesa «non può essere coartata né intimidita» nemmeno quando dice verità scomode, anzi non potrà «esimersi dal dire ciò che davanti a Dio ritiene sia giusto». Di Boffo dice: «un passaggio amaro che, in quanto ingiustamente diretto ad una persona impegnata a dar voce pubblica alla nostra comunità, ha finito per colpire un po’ tutti». Bagnasco ha invitato la politica alla sobrietà, ha parlato dei 150 anni dell’unità d’Italia come occasione per un «nuovo innamoramento del nostro essere italiani» e sulle grandi questioni etiche in agenda nella vita sociopolitica ha rivendicato che non c’è «nessuna logica mercantile» e che «niente ci è più estraneo della volontà di far da padroni». Espliciti riferimenti e giudizi sulla Ru486 («incrementa la mentalità per cui l’aborto finisce per essere considerato un anticoncezionale») e sulla legge sul fine vita («auspichiamo che un provvedimento, il migliore possibile, possa essere quanto prima varato a protezione dei più deboli» e giudica «prezioso» il lavoro svolto in Senato). Sull’immigrazione ricorda che l’esclusione dal circuito della legalità dà luogo a preicolose autoemerginazioni e cita come «opportuni» dispositivi «meglio calibrati» come quello sulle badanti.

FINE VITA
AVVENIRE – Londra depenalizza il suicidio assistito: lo fa non cambiando la legge ma emanando delle linee guida con cui distinguere caso per caso la perseguibilità penale (o meno) dei famigliari che aiutano una persona a morire, magari aiutandolo ad andare in Svizzera, dove il suicidio assistito è legale. Tra i criteri da valutare, l’assenza di un interesse economico e la non manipolabilità del paziente.

BERLUSCONI-FINI
IL GIORNALE – Vincenzo La Manna firma la cronaca dell’incontro tra i due leader che dovrebbe aver ricomposto le fratture interne alla maggioranza. “Berlusconi e Fini, prove tecniche di disgelo” è il titolo seguito da un commento di Vittorio Macioce “Un patto per l’oggi ma l’incognita è il futuro”. Per il caporedattore «il primo banco di prova saranno le regionali». Il summit a casa di Gianni Letta è «un “patto della Camilluccia” seduto sul presente che non guarda al futuro. È solo un chiarimento che serviva».

LA REPUBBLICA –  Dopo i funerali di Stato, Fini e Berlusconi a casa Letta. Si sono parlati per due ore. Chiedendo il primo maggiore collegialità e lo stop degli attacchi di Vittorio Feltri, ribadendo il secondo la sua strategia tesa a sdrammatizzare. Cicchitto e Bocchino plaudono, ma restano diverse visioni…

ITALIA OGGI – Si può trovare un accordo su chi viene candidato alle prossime elezioni regionali a patto che venga scaricato il direttore de Il Giornale. E’ quello che, secondo la ricostruzione del pezzo “A Fini baserebbe la testa di Feltri” pubblicato da ITALIA OGGI nella sezione Primo Piano, il presidente della Camera ha fatto intendere a Berlusconi ieri sera a cena. Scrive ITALIA OGGI: «A quel punto, i problemi con il presidente  del Consiglio Silvio Berlusconi svanirebbero d’incanto. Si, perché il caminetto alla Camilluccia ha dimostrato che un punto di mediazione su tutto il resto: gestione del partito e candidature lo si potrà trovare sempre». E se Feltri non cade? Secondo ITALIA OGGI, Fini «valuterà di volta in volta e tratterà  in ogni caso. Come se fosse il leader di un movimento politico a sé e non un membro dello stesso partito del premier. Al pari del leader del Carroccio  Umberto Bossi». Ma a complicare i rapporti non c’è solo un direttore in carica, ma anche un ex direttore non più in carica da qualche giorno: Boffo.  Secondo l’articolo, il caso Boffo non è chiuso e divide ancora la Cei. Lo proverebbe il retroscena riportato sabato sera sul suo blog Settimo Cielo del vaticanista dell’Espresso, Sandro Magister. «Feltri», scrive ITALIA OGGI, «avrebbe pubblicato, con lo pseudonimo di Diana Alfieri, il pensiero del direttore dell’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, naturalmente fedelissimo del segretario di Stato, Tarcisio Bertone». Secondo l’analisi del quotidiano dei professionisti, si tratterebbe di «un testo da cui emerge tutta la ruggine del Vaticano con Fini e con la linea dell’ex presidente della Cei, Camillo Ruini, incarnata fin qui da Boffo».

UNESCO
SOLE24ORE – “Testa a testa per la guida dell’Unesco”: oggi è il giorno decisivo per agenzia culturale dell’Onu, che dovrà scegliere il nuovo presidente. I candidati sono due e sono arrivati pari alla votazione finale: si tratta di Farouk Hosni, ministro egiziano alla cultura, e Irina Bokova, semisconosciuta diplomatica bulgara, ex ministro degli Esteri, ma praticamente un carneade al di fuori della Bulgaria. Come mai insidia la candidatura di Hosni? Semplice: quest’ultimo è un personaggio controverso, accusato da diverse organizzazioni ebraiche di posizioni antisemite (da lui mai smentite ma catalogate come «peccati di gioventù») e anche di atteggiamenti censori in patria. Gode dell’appoggio della Francia, perché amico di Sarkozy, ma molti altri paesi europei, in primis l’Austria, si oppongono alla sua elezione e pare stiano convincendo altri a voltargli le spalle. Oggi si vedrà.

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