Sostenibilità

Le aspettative sul summit che dovrà lanciare il Kyoto 2

Chiamati a impegnarsi 193 membri. L'obiettivo è quello di rimanere ben al di sotto di 2°/C di aumento medio della temperatura globale

di Redazione

L'obiettivo è quello di rimanere ben al di sotto di 2°/C di aumento medio della temperatura globale ma la Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, in corso a Doha, nel nuovo Qatar National Convention Centre, potrebbe vedere la negoziazione procedere ancora troppo lentamente come è accaduto a Durban, in Sud Africa, un anno fa. Intanto nell'emirato del Qatar sono arrivate le 195 delegazioni delle nazioni che saranno le “Parti” della Convenzione quadro sul cambiamento climatico, cui partecipa anche l'Ue, l'unica organizzazione regionale di integrazione economica riconosciuta.

Il summit, che si terrà fino al 7 dicembre prossimo, si apre dunque con la grande incognita di poter raggiungere obiettivi significativi per contrastare il cambiamento climatico in atto e scongiurare ua catastrofe ambientale.

Proprio alla vigilia del summit di Doha l'Unep ha pubblicato l'Emission Gap Report 2012 in cui sottolinea che gli impegni attuali che i Governi hanno già preso per contrastare il cambiamento climatico sono così deboli che condurranno in ogni caso il mondo a un aumento della temperatura globale della superficie terrestre fino a 5°C entro fine secolo, per oltre il limite di 2°C che non dovremmo assolutamente superare se vogliamo garantire un futuro alla nostra civiltà. E gli ambientalisti stanno già affilando le armi.

«La fiducia tra i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo sarà il fattore decisivo per il successo dei negoziati a Doha». Così Mariagrazia Midulla, responsabile Clima e Energia del WWF Italia, commenta l'avvio dei negoziati sul cambiamento climatico a Doha, in Qatar che devono gettare le basi per un accordo equo, ambizioso e vincolante entro il 2015.

La mancanza di fiducia, sottolinea Midulla, «è uno dei principali nodi del momento. I paesi sviluppati si sono impegnati, anche a bassi livelli, ma alcuni non hanno adempiuto ai loro impegni. Allo stesso tempo, i paesi in via di sviluppo sono stati spinti a prendere più misure, ma senza impegni finanziari perché vengano attuate. Tutti i Paesi devono fare la loro parte per arrivare al livello di fiducia necessario per fare progressi. A nostro avviso, questo può creare o distruggere i progressi verso la finalizzazione di un nuovo accordo globale entro il 2015».

E l'imperativo non è mai stato così forte. Le recenti relazioni scientifiche sul cambiamento climatico mostrano che il mondo sta rapidamente tornando indietro sui suoi obiettivi di taglio alle emissione di Co2 e, se questo non si arresta bruscamente, il mondo dovrà affrontare le conseguenze devastanti di un mondo più caldo di 4° C, troppo rispetto ai 2°C che la scienza si raccomanda di non superare.

«Solo quest'anno, abbiamo assistito ad alcuni degli effetti più devastanti del cambiamento climatico in tutto il mondo. Poiché le emissioni di Co2 hanno raggiunto livelli record, il ghiaccio marino artico ha raggiunto i minimi storici, la siccità ha devastato le aree del mondo produttrici di grano e i prezzi di grano, mais e soia hanno raggiunto picchi storici. E quando i prezzi del cibo raggiungono il picco, i poveri soffrono la fame», continua Midulla.

«Se i Paesi non sono pronti a dimostrare una maggiore ambizione (vale a dire meno emissioni e più finanza), vivono in un universo parallelo, un universo in cui il cambiamento climatico non sta travolgendo il mondo come un treno in corsa».

Per questo, aggiunge Midulla, «chiediamo ai Paesi ricchi di avere piani credibili, in cui vengano mantenute le promesse di mobilitare risorse per il Clima e ci aspettiamo che i paesi in via di sviluppo facciano la loro parte, tenendo presente, in primo luogo, che la maggior parte di essi sono ancora paesi a basso reddito. La vera prova sta nel vedere se il mondo è pronto a un drastico taglio delle emissioni, in linea con quanto tutti i più affidabili scienziati e le istituzioni ci stanno dicendo».

Nell'immediato a Doha verrà lanciato il secondo periodo di impegni del Protocollo di Kyoto (per i Paesi industrializzati), trasformando le indicazioni dei Governi in veri e propri target di riduzione. Anche i paesi in Via di Sviluppo devono dichiarare davanti alla Comunità internazionale quali azioni intendono intraprendere per limitare le emissioni di anidride carbonica e di gas serra. E tutti i Paesi dovrebbero avere una strategia e una roadmap di decarbonizzazione al 2050.

Intanto l'Unione europea ha anticipato già la linea che intende seguire ai tavoli di trattativa a Doha. «A Doha l'Ue», ha spiegato la Commissione europea, «confermerà, dati alla mano, di essere in linea con la tabella di marcia per l'erogazione dei 7,2 miliardi di euro di finanziamenti rapidi per il clima concordati per il periodo 2010-2012». L'Unione discuterà con i partner in via di sviluppo «sul futuro dei principali flussi di finanziamento per il clima dell'Ue nel 2013-2014».

Inoltre, l'Ue «ribadirà il proprio impegno a fornire la sua parte del finanziamento per il clima di 100 miliardi di dollari Usa annui che i paesi sviluppati destineranno entro il 2020 al sostegno ai paesi in via di sviluppo per la mitigazione delle emissioni e per l'adattamento ai cambiamenti climatici». «Doha deve ripartire dai progressi raggiunti a Durban e far progredire i lavori preparatori per giungere a un accordo globale sul clima giuridicamente vincolante entro il 2015», ha detto la Commissaria responsabile per l'Azione per il clima, Connie Hedegaard.

«Sarà altrettanto importante», ha aggiunto ancora, «accordarsi sulle future misure di riduzione delle emissioni intese a mantenere l'aumento della temperatura globale al di sotto dei 2°C. L'Ue sta tenendo fede all'impegno di partecipare a una seconda fase del protocollo di Kyoto e di continuare a sostenere con importanti mezzi finanziari le iniziative dei diversi paesi contro i cambiamenti climatici». «La conferenza di Doha prenderà spunto dal recente rapporto della Banca mondiale e dal rapporto dell'Unep sul divario delle emissioni, da cui emerge chiaramente che il mondo sta perdendo tempo prezioso», è stato l'allert lanciato da Hedegaard. Un allarme condiviso da molti alla vigilia del summit.

Il “Fondo verde” per il clima di 100 miliardi di dollari l'anno potrebbe essere a rischio, visto il rallentamento economico registrato sia negli Stati Uniti sia in Europa, ma «i Paesi in via di sviluppo hanno bisogno di questi soldi per essere in grado di inserirsi in un percorso low-carbon». Lo sottolinea Bindu Lohani, vice presidente della Adb, l'Asian Development Bank (la Banca Asiatica per lo Sviluppo), in apertura della conferenza di Doha, in Qatar.

Lohani si dice fiducioso che i Paesi ricchi possano aumentare gli aiuti finanziari a quei Paesi poveri che si trovano a dover fare i conti con le consegeunze dei cambiamenti climatici e auspica che i negoziati di Doha vadano oltre gli attuali problemi che interessano l'economia globale, per mettere in campo un piano di aiuti per le nazioni in via di sviluppo che sia in grado di mitigare gli impatti dei cambiamnenti climatici e aiutarli ad adattarsi alle condizioni climatiche estreme.

Le nazioni ricche hanno finanziato, finora, quasi 30 miliardi di dollari in sovvenzioni e prestiti volti a iniziare, nei Paesi più poveri, politiche di riduzione delle emissioni e di adattamento climatico, ma questo tipo di impegno, preso nel 2009, scade proprio quiest'anno. Lohani, però, spera in un rinnovato impegno del protocollo di Kyoto e in “qualche incremento” nell'ambito di un accordo universale sui cambiamenti climatici ai colloqui di Doha dove i 193 membri delle Nazioni Unite sono chiamati a impegnarsi per un concreto taglio delle emissioni entro il 2020. I delegati presenti a Doha sono al lavoro sui dettagli del trattato che dovrebbe essere firmato entro il 2015.

«La 18esima Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici può dare un contributo importante anche per uscire dalla crisi economica. Perché non si tratta solo di contrastare il surriscaldamento del Pianeta e di mitigare gli effetti sempre più evidenti del mutamento climatico in atto, come i fenomeni climatici estremi e le siccità che colpiscono fasce sempre più ampie del Pianeta e che si abbattono anche su alcune aree del nostro Paese. Ma si tratta di proporre un cambiamento culturale e un diverso modello di sviluppo, fondato su un'economia a basso tenore di carbonio, che fa della green economy un fattore strategico». È il commento di Ermete Realacci, responsabile Green economy del Pd, commentando l'apertura della Cop18 a Doha.

«Nel nostro Paese», aggiunge, «già oggi esiste una green Italy che interessa il 23,6% delle imprese creando occupazione, tanto che il 38,2% delle assunzioni complessive programmate per l'anno in corso si deve alle aziende che investono in tecnologie green. E sempre le imprese “verdi”, come emerso dal recente rapporto GreenItaly 2012 di Fondazione Symbola e Unioncamere, sono quelle che innovano di più e che meglio competono sui mercati globali».

Il cambiamento climatico è già in atto. Per questo è urgente passare dalla parole ai fatti. È questo invece l'invito che Greenpeace rivolge ai governi che si riuniscono per la Conferenza. In particolare, «a Doha si decide della sorte del Protocollo di Kyoto che, per quanto largamente insufficiente, è l'unica legittima decisione globale per la limitazione delle emissioni di gas serra che di recente hanno superato il limite di 390 parti per milione. Dalla rivoluzione industriale del XVI secolo ad oggi abbiamo immesso nell'atmosfera 375 miliardi di tonnellate di carbonio».

«È ora che i governi, compreso quello italiano che promuove il carbone e le trivellazioni in mare, si diano da fare per rappresentare concretamente gli interessi delle popolazioni, sempre più vittime del cambiamento climatico, e non quelli delle imprese fossili, dai petrolieri a chi costruisce centrali a carbone, che di tutto questo sono responsabili», ha sottolineato  Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia.

Greenpeace chiede che a Doha ci si accordi per un secondo periodo di impegni, senza permettere che il mercato dei diritti di emissione si riveli ancora una opportunità per le aziende di acquistare a basso costo il diritto di alterare il nostro clima. Ad oggi sono ancora a disposizione dei grandi emittitori di gas serra diritti residui per 13 miliardi di tonnellate di Co2, equivalenti a 2,5 volte le emissioni annue dell'Europa.

Negli ultimi cinque anni, l'aumento dell'uso del carbone è stato responsabile di due terzi dell'incremento delle emissioni globali di Co2 e ormai istituzioni come la Banca Mondiale, la Cia e l'Unep lanciano allarmi molto chiari sui rischi che stiamo correndo.

Purtroppo, sottolinea Boraschi, «l'economia mondiale sta accelerando nella direzione sbagliata. Per rimetterla in carreggiata a Doha ci vuole una leadership forte e lungimirante che definisca subito obiettivi ambiziosi di riduzione delle emissioni di gas serra per dare un segnale chiaro agli investitori su quale sarà il sistema energetico mondiale». Nell'ultima Conferenza delle Parti, a Durban lo scorso anno, si è deciso di arrivare nel 2015 a un accordo vincolante sul clima; e che si sarebbe comunque andati avanti nella riduzione delle emissioni fino a quando tale accordo non entrasse in vigore, nel 2020.

A Doha, secondo Greenpeace, bisogna stabilire obiettivi di riduzione delle emissioni più ambiziosi al 2020 e dare concretezza alle altre decisioni di Durban come il Green Climate Fund che deve essere adeguatamente finanziato per fermare la deforestazione nei Paesi in via di sviluppo. La deforestazione è responsabile del 20% delle emissioni di gas serra oltre che della perdita di biodiversità, già minacciata dal cambiamento climatico.

Per Legambiente serve un segnale forte che dimostri concretamente la volontà politica di lavorare verso un nuovo accordo ambizioso. In questo contesto, per Mauro Albrizio, responsabile Politiche Europee di Legambiente, «è fondamentale approvare a Doha il rinnovo degli impegni previsti dal Protocollo di Kyoto, in scadenza alla fine di quest'anno. Sino ad ora, tra i paesi industrializzati, hanno garantito la sottoscrizione l'Unione europea, la Svizzera e la Norvegia. Mentre Usa, Canada, Giappone e Russia si sono già detti contrari. Australia e Nuova Zelanda invece devono ancora assumere una decisione finale». Nonostante ciò «il “Kyoto 2” è uno strumento indispensabile a garantire la transizione verso il nuovo accordo globale».

I negoziati sul “Kyoto 2” sono a buon punto. Restano ancora da sciogliere alcuni nodi giuridici per garantire l'immediato avvio dal primo gennaio 2013, e soprattutto resta da risolvere la questione spinosa del surplus di emissioni assegnate per il primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto e che secondo le norme attuali possono essere conteggiate per gli impegni di riduzione del secondo periodo 2013-2020. Si tratta di ben 13 miliardi di tonnellate di Co2 che interessano soprattutto Russia, Ucraina ed alcuni paesi dell'est Europa. Questo surplus rischia di mandare in tilt l'intero sistema se si continua a consentire la possibilità di vendere sul mercato delle emissioni le quote in eccesso.

Ma una soluzione di buon senso sta guadagnando un crescente consenso. Si tratta della proposta sostenuta da Cina, India, Brasile e Sudafrica di consentire l'uso del surplus sino al 2020 solo per gli “usi domestici” dei paesi detentori delle quote in eccesso, vietando però loro la possibilità di immetterle sul mercato. Altra decisione fondamentale per il buon esito di Doha riguarda gli aiuti ai paesi poveri per sostenere i loro impegni di riduzione e di adattamento a cambiamenti climatici in corso nel periodo di transizione 2013-2015 con un sostegno finanziario annuo di almeno 10-15 miliardi di dollari.

Serve, infine, conclude Albrizio, «un segnale forte che dimostri concretamente la volontà politica di lavorare per davvero verso un nuovo accordo ambizioso e giusto. L'eliminazione entro il 2020 dei sussidi ai combustibili fossili è senza dubbio una decisione che va in questa direzione. Si tratta di circa 800 miliardi di dollari l'anno che potrebbero essere invece destinati a sostenere azioni di mitigazione e adattamento, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. In questi paesi l'Agenzia internazionale per l'energia stima "in ben 630 miliardi di dollari l'ammontare dei sussidi ai combustibili fossili, la cui eliminazione consentirebbe una riduzione delle emissioni del 5.8% entro il 2020. Oltre 110 paesi non solo in via di sviluppo ma anche Stati Uniti e Unione europea, si sono già espressi a favore. Decisione ormai non più rinviabile».

«Gli eventi estremi e le catastrofi cui stiamo assistendo hanno dimostrato come il tempo stia scadendo. Dal super tornado Sandy negli Stati Uniti alle eccezionali piogge monsoniche nelle Filippine, per arrivare alle alluvioni in Toscana quest'anno e in Liguria nel 2011, gli effetti della febbre del pianeta stanno creando danni e vittime in tutto il mondo» sottolinea invece Alberto Zoratti dell'organizzazione dell'economia solidale Fairwatch che partecipa alla Conferenza.

«Per contrastare efficacemente questo disastro è necessaria una presa di responsabilità dei Governi, sia dal lato dei finanziamenti dando gambe al Green Fund che fino ad oggi stenta a partire in modo efficace, sia attraverso una reale sostenibilità nella politica energetica ed economica», continua Zoratti, «a cominciare dall'Unione Europea, che dovrebbe alzare i propri obiettivi di riduzione ben oltre il 20% entro il 2020, per raggiungere come chiesto a più voci almeno il 30%, per arrivare al nostro Governo, che dalla proposta di Strategia Energetica Nazionale dimostra come abbia intenzione di continuare a sostenere lo sviluppo di un'economia fossile».

Positivo il giudizio sulla società civile che sta dimostrando come la rivoluzione ecologica sia già una realtà, dalle comunità che sostengono l'agricoltura locale e sostenibile per arrivare alle transition town, fino alle proposte alternative di fornitura energetica. Per Fairwatch «i passi in avanti fatti dai Governi membri delle Nazioni Unite sono ancora ben lontani da quello che la comunità scientifica chiede da tempo: per mantenere l'aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C, considerati dalla comunità internazionale un limite da non superare, il picco massimo delle emissioni si dovrebbe raggiungere nel 2015, anno a cui dovrebbe seguire una rapida diminuzione. Ma sebbene la crisi economica, la diminuzione dei consumi e la rivoluzione delle rinnovabili stiano contribuendo a contenere le emissioni, queste a livello globale continuano pericolosamente a salire».


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