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Le armi in Siria parlano italiano

Dopo la forte denuncia di Papa Francesco sul commercio di armi, l'Osservatorio permanente sulle armi leggere di Brescia traccia un preciso quadro della situazione: «siamo il paese europeo che più ha esportato nel paese siriano e in quelli confinanti negli ultimi 15 anni», spiega l'analista Giorgio Beretta

di Daniele Biella

Giorgio Beretta, redattore del portale Unimondo e analista di Opal, Osservatorio permanente sulle armi leggere e Rete italiana per il disarmo, da anni studia ogni movimento di armamenti dall’Italia verso tutto il mondo. Sull’export nostrano (soprattutto quello proveniente dalla Provincia di Brescia, dove ha sede il maggiore polo di aziende “armate” italiane e  lo stesso Osservatorio) verso la Siria, Beretta va segnalando già da tempo varie incongruenze a livello di dati comunicati in sede di Unione europea come nelle varie Relazioni al Parlamento. Con i venti di guerra molto intensi e soprattutto dopo le dure parole di Papa Francesco sulle “guerre combattute per vendere armi”, quale ruolo ha, ma soprattutto, ha avuto fino a pochi giorni fa l’Italia nella diffusione di armi in Siria e dintorni? Ecco le risposte, chiare e piene di dati inconfutabili, dell’analista dell’Opal.

Cominciamo dalle parole di Francesco contro le armi: “Dire no alla proliferazione delle armi e al loro commercio illegale. Ce n’è tanto! Ce n’è tanto!”. Colpiranno nel segno?
Senza dubbio il pontefice ha il grande merito di aver risollevato, con coraggio, il problema delle armi vendute soprattutto in zone di guerra, riportandolo all’attenzione internazionale che merita. Bisogna però sottolineare che lui si è riferito in particolare ai traffici illegali che, dati alla mano, rappresentano il 5% del totale. Un problema ancora più grave sono le armi vendute legalmente ma a paesi che poi le riesportano facendone perdere le tracce: si tratta del 30% del totale, un’area grigia che provoca danni enormi. Poi c’è la vendita, sempre legale, a dittatori, a paesi in conflitto o a sistemi antidemocratici. Prima o poi avvengono sollevamenti popolari, e queste armi non si sa che fine facciano e da chi vengano usate. Ricordiamolo: i governi passano, ma le armi restano.

Quando discutiamo di armi di fabbricazione italiana in Siria, di cosa parliamo?
C’è da distinguere almeno due filoni: una è quella della vendita governativa. Fin dal 1998, ovvero durante i governi D’Alema e Prodi, l'Italia ha venduto i sistemi di puntamento Galileo per carrarmati all’allora padre di Bashar Al Assad, Hafez (che morirà nel 2000 lasciando il posto al figlio, ndr). Le autorizzazioni iniziali erano per 229 milioni di dollari, che poi però si concretizzarono in consegne “solo” per 131 milioni di euro fino al 2003, quando è scoppiata la guerra in Iraq e il governo italiano, nel frattempo avente come premier Silvio Berlusconi, ha sospeso il tutto intuendo che tali puntatori sarebbero stati dati da Assad al proprio “amico” Saddam Hussein. Le vendite riprendono nel 2009, con una nuova autorizzazione: per almeno dieci anni, e in modo bipartisan a livello politico, si è rifornito il governo di Damasco di componenti per armamenti, tutto alla luce del sole, ed è stata la maggior commessa italiana di sistemi militari di dagli anni ’90 in poi, di gran lunga superiore a tutti gli altri stati dell’Unione europea. Stiamo parlando di quei carrarmati poi usati da Bashar Al Assad per sparare sulla propria popolazione che protestava nelle piazze due anni fa.

In Italia i governi passano, le armi si continuano a vendere, quindi. Se il primo canale di invio di armi italiane in quelle zone è il regime, qual è il secondo?
In base ai rapporti europei, negli ultimi anni, ovvero da quando sono scoppiati i disordini, a livello di armi leggere l’Italia non ha inviato nulla né alla Siria né ai paesi confinanti. Ma se poi si vanno a vedere i dati Istat relativi alla Provincia di Brescia, si scopre che sono stati consegnati armi ai paesi confinanti della Siria, come Israele, Libia e Turchia (vedi le tabelle contenute nell’articolo “Le armi leggere hanno alimentato il conflitto in Siria causando oltre 93mila morti” su Opalbrescia.org, ndr). Soprattutto a quest’ultima, le cifre sono da rimanere a bocca aperta: da 1,7 milioni di euro in armi esportate nel 2009 si passa ai 36,5 milioni del 2012. Si fanno presto i conti: tale cifra e equivale a 150mila armi, cifra incredibile assolutamente fuori portata per le polizie locali o per altri scopi come quello sportivo. A chi sono state destinate quelle armi? È una domanda che stiamo rivolgendo da tempo alle autorità italiane, in primis ai funzionari governativi che rimangono gli stessi con l’accavallarsi dei governi (Berlusconi, Monti e Letta negli ultimi due anni), ma finora nessuna risposta.

Possono avere intrapreso la via della Siria ed essere finite in mano agli oppositori di Assad?
È chiaro che non si può dire perché non si hanno prove, ma una cifra del genere può verosimilmente rifornire un esercito, anche perché tra le armi leggere vi sono pistole semiautomatiche, carabine e fucili a pompa. Armi che, se non destinate ai governi, si possono esportare anche solo con un permesso del Questore. Abbiamo chiesto da settimane l’incontro con il questore di Brescia per avere chiarimenti, ma non ci ha ancora ricevuto.

Il professore belga liberato con Domenico Quirico ha riferito di una conversazione tra ribelli in cui si parlava dell’attacco chimico non come opera di Assad ma dei suoi oppositori, cosa che però l’inviato della Stampa non ha confermato. Qual è la sua idea dell’utilizzo delle armi chimiche in Siria?
Nelle situazione di conflitto è sempre complicato attribuire responsabilità dirette a una delle parti coinvolte, in mancanza di prove certe come delle foto chiare e inconfutabili. Ci può stare sia la volontà di una parte che l’errore di un’altra. Purtroppo in questo caso, più che mai, regna l’incertezza.

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