Verso il Primo Maggio

Lavoro, quattro italiani su dieci sono insoddisfatti

Uno di studio Legacoop-Ipsos è lo specchio di una disaffezione crescente nei confronti del lavoro. Il presidente nazionale Legacoop Simone Gamberini: «Non c’è futuro senza lavoro dignitoso e sicuro. Serve un impegno comune delle istituzioni e delle parti sociali per costruire contesti lavorativi che riconoscano e valorizzino le persone»

di Redazione

Impegnativo, stressante, faticoso, distaccato. Sono gli aggettivi che quattro italiani su dieci scelgono per raccontare il proprio lavoro, e il numero cresce nella fascia tra i 31 e i 50 anni, raggiungendo quota 60%. Il report FragilItalia Lavoro e alienazione, realizzato dall’Area Studi Legacoop in collaborazione con Ipsos, è lo specchio di un’insoddisfazione che insiste e una disaffezione che aumenta.

L’indagine, realizzata sotto forma di sondaggio condotto su un campione rappresentativo della popolazione italiana, si propone di testare opinioni e percezioni rispetto al mondo del lavoro, su cosa rappresenti oggi per le persone a seconda del ceto di appartenenza, il livello di istruzione e l’età. La maggior parte degli intervistati restituisce l’immagine di una professione vissuta più come un obbligo che come una forma di espressione o un’occasione di realizzazione personale. Soltanto il 34% indica almeno una connotazione positiva (dinamico, creativo, in linea con il mio modo di essere), ma la percentuale sale al 41% tra i laureati, al 43% nel ceto medio e nella fascia d’età 31-50 anni.

Come si diffonde il senso di alienazione

Quasi sono le cause di questa tendenza? Quattro lavoratori su dieci (il 39%) non sentono di poter esprimere la propria personalità nel lavoro svolto: un dato particolarmente sentito dagli appartenenti al ceto popolare (61%), dai lavoratori a bassa scolarizzazione (52%) e dagli under30 (49%). Il 23% (che sale al 42% nel ceto popolare) si sente disconnesso dal prodotto finale e il 22% (ma con una percentuale più che doppia, il 47%, nel ceto popolare) percepisce costantemente una mancanza di scopo o di significato.

È una deriva. Se sei giovane o appartieni al ceto popolare, hai il doppio delle probabilità di sentirti disconnesso, svuotato, senza scopo. Senza un lavoro che valorizzi le persone, si rischia di compromettere il futuro di un’intera generazione

Simone Gamberini, presidente di Legacoop

Gli indicatori cambiano segno tra gli over64 e il ceto medio. La perdita di senso nell’attività lavorativa non viene mai avvertita o è una sensazione provata di rado dal 62% degli over64 e dal 54% del ceto medio, mentre la possibilità di esprimere la propria personalità con il proprio mestiere è percepita dal 71% degli over64 e dal 68% del ceto medio. Entrambe le fasce si sentono, inoltre, abbastanza o molto connesse con il proprio lavoro: gli over64 per l’84%, il ceto medio per il 77%.

Vita privata e fattore identitario

Dove è finito il senso di appartenenza? Il documento riporta un fenomeno diffuso di disaffezione. Il 55% degli interpellati si sente più realizzato nelle attività che svolge fuori dal contesto lavorativo, mentre il 45% dichiara di sentirsi maggiormente coinvolto nell’attività professionale (la percentuale cresce fino al 62% per gli over64). Quattro lavoratori su dieci si sentono emotivamente esausti a causa del loro lavoro almeno qualche giorno a settimana: diventano cinque su dieci nella fascia di età 31-50 anni e sette su dieci nel ceto popolare. Meno avvertito, invece, il condizionamento che il lavoro può esercitare sulla vita privata: il 65% (che sale all’81% degli over64 e al 78% del ceto medio) ritiene che il lavoro non interferisca negativamente con la propria vita personale e familiare. Di parere opposto il 35%, di nuovo con un’incidenza maggiore della media per il ceto popolare (61%) e per i 31-50enni (42%).

«Una trappola di fatica e frustrazione»

L’analisi è un interessante spunto di riflessione per chi si occupa di lavoro e benessere dei lavoratori. Simone Gamberini, presidente di Legacoop, sottolinea: «Da motore di dignità e sviluppo, svolgere un mestiere si sta trasformando in un fattore di insoddisfazione. Il lavoro, oggi, rischia di diventare una trappola di fatica e frustrazione, soprattutto tra chi dovrebbe essere nel pieno della propria vitalità professionale». Occorre interrompere quella che Gamberini definisce «una deriva. Se sei giovane o appartieni al ceto popolare, hai il doppio delle probabilità di sentirti disconnesso, svuotato, senza scopo. Senza un lavoro che valorizzi le persone, si rischia di compromettere il futuro di un’intera generazione e di svuotare il senso stesso della crescita economica e sociale. Il lavoro deve tornare a essere strumento di emancipazione, non di sofferenza. Il senso di questo Primo Maggio, sempre più attuale, è che non c’è futuro senza lavoro dignitoso e sicuro».

Al lavoro e ai modi nuovi con cui prende forma nelle nostre vite è dedicato il numero di VITA Magazine di maggio, che uscirà la prossima settimana.

La fotografia in apertura è di Vitaly Gariev su Unsplash

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