Welfare

Lavoro, l’inverno del nostro scontento

Il 6° Rapporto Censis-Eudaimon sul benessere dentro le aziende ha sondato il sentimento con cui gli italiani vivono la propria condizione professionale. Domina una grande insoddisfazione per il salario ma anche per la qualità del lavoro e la mancata conciliazione con le esigenze di vita. Solo sei lavoratori su 10 conoscono gli strumenti di welfare aziendale

di Barbara Polidori

Non si lavora più per vivere, semmai il contrario. A soffrire questa situazione sono soprattutto i giovani occupati, in particolare le donne.

Il 6° rapporto Censis sul welfare aziendale, presentato a Roma il 1° marzo scorso, racconta un’Italia in cui domina la precarietà lavorativa, la mobilità e la diseguaglianza sociale. Cambiano le logiche di mercato, che favoriscono la rarefazione del lavoro, così i giovani occupati con contratto stabile sono sempre meno (-7,6% negli ultimi 10 anni), ma a un prezzo molto alto per la produttività nazionale: sempre più aziende hanno difficoltà a fidelizzare la forza lavoro e a trattenerla, si cercano così nuove strategie per rimotivare i collaboratori e trovarne di nuovi. Il 6° Rapporto Censis-Eudaimon parte da questa fotografia chiedendosi se il welfare aziendale possa migliorare la qualità di vita di una generazione per cui il lavoro non è più soltanto diritto, ma una zavorra esistenziale che, con le regole attuali, impedisce di raggiungere una qualità di vita dignitosa.

«Abbiamo sempre voluto raccontare l’evoluzione del welfare in relazione all’evoluzione del mercato del lavoro e delle relazioni tra persone e mondo del lavoro», ha raccontato Francesco Maietta, responsabile area consumer, mercati privati e istituzioni di Censis, «Ciò che emerge dallo studio è un aumento importante del mobilismo lavorativo e l’attivazione dei giovani: c’è una caccia incessante a lavori migliori», che concilino le elevate aspettative delle persone, alla ricerca del benessere, a cui punta proprio il welfare aziendale.

La rarefazione del lavoro e delle aspettative di vita

Se in Italia mancano la forza contrattuale e gli incentivi sui dipendenti, di risposta anche per chi lavora vengono a mancare motivazioni e senso di appartenenza alla propria azienda. «Più di 2/3 dei lavoratori pensa che il lavoro serva solo ad avere i soldi di cui si ha bisogno», racconta Maietta. Se potesse, il 46,7% degli occupati italiani lascerebbe infatti l’attuale lavoro. Se non lo fa, è solo perché è funzionale al sostentamento economico, come dichiara il 64,4% degli intervistati.

«Prima il dovere, poi il piacere» è il mantra con cui le generazioni più recenti accettano di lavorare, ma rinunciando per la maggior parte alla loro realizzazione personale, ammettendo invece un senso di insoddisfazione che incentiva la mobilità lavorativa e l’inquietudine per diverse ragioni: il 65% degli intervistati ritiene che le opportunità di avanzamento professionale per esempio siano scarse, il 53% giudica le retribuzioni insoddisfacenti e il 42,6% teme di perdere il lavoro da un momento all’altro.

Un’istantanea di precarietà tutta italiana che incide anche sulla programmazione delle nascite, con ripercussioni gravissime per il Paese: le più penalizzate dal mercato lavorativo sono le donne, il 46,3% di loro ha forme contrattuali non standard che non danno certezze nel lungo periodo e scoraggiano il desiderio di crearsi una famiglia.

«A questi ritmi, entro il 2050 assisteremo a un rimpicciolimento della popolazione, perdendo 4,8 milioni di abitanti, come se Roma, Torino e Milano scomparissero», afferma Massimiliano Valeri, direttore generale Censis, «Il senso di precarietà sta invadendo tutti, mi duole dire che molte donne, quando scelgono di andare in gravidanza, è come se ammettessero di accettare di poter essere demansionate in questo Paese».

Il welfare aziendale per conquistare il benessere

Di questo passo, se le aziende non prendono di petto lo scoraggiamento dei giovani, il rischio è che venga a mancare in futuro proprio la forza lavoro. I lavoratori giovani in Italia nel decennio 2012-2022 sono diminuiti infatti del 7,6% (età 15-34 anni) e del 14,8% tra i 35-49 anni. Al contrario, sono aumentati gli occupati di 65 anni (+40,8%) e over 65 (+68,9%). In questo modo i lavoratori invecchiano e, stando allo studio Censis-Eudaimon, si stima che entro il 2040 le forze lavoro saranno diminuite nel complesso dell’1,6%, come esito della radicale transizione demografica che il Paese sta vivendo.

«L’Italia è l’unico Paese in Europa in cui la spesa pubblica negli ultimi 20 anni è diminuita del 12%, mentre altrove è cresciuta», racconta Francesca Re David, segretaria confederale Cgil. L’avvento dello smart working ha sicuramente cambiato la percezione odierna del lavoro e trasmesso quanto ci sia bisogno di nuovi modelli occupazionali, con effetti tanto sui lavoratori quanto sulle aziende: il 52,8% degli intervistati del Rapporto Censis-Eudaimon dichiara che in questo modo i datori trasferiscono i costi che normalmente sostiene l’impresa direttamente sul personale. Oggi lavora da remoto il 12,2% degli occupati ed è una scelta sostenibile per le persone, il lavoro da casa piace perché per l’81,3% consente una migliore conciliazione tra famiglia, vita privata e lavoro; per il 74,8% riduce lo stress legato al lavoro in presenza, per il 74,1% permette di lavorare in contesti migliori del luogo di lavoro deputato, mentre il 70,4% afferma che lo smart working migliora in generale la qualità della vita. C’è poi un 71,8% che riconosce il valore dello smart working, ma ne comprende anche i limiti: in tal caso il giudizio è positivo solo se lo smart working è alternato con giorni di lavoro in presenza.

«I dati che emergono dal rapporto sono drammatici, la domanda che a questo punto rivolgiamo alle istituzioni e se ci stiamo realmente impegnando per cambiare le cose in Italia. Se peggiorano i numeri, aumentano anche le disuguaglianze nel nostro Paese», interviene Pierpaolo Bombardieri, segretario generale Uil, «Il salario è un tema delicato di cui nessuno sembra voler davvero parlare per esempio: abbiamo i salari più bassi d’Europa e 7 milioni di lavoratori oggi hanno dei contratti scaduti in Italia. Siamo pronti a parlare nel nostro Paese di produttività e competitività rinunciando al modello fordista? Perché se in Spagna c’è una legge che vieta i contratti a tempo determinato, salvo alcuni criteri, qui in Italia non condividiamo ancora questa scelta?».

Arrivati allo stremo, molti giovani per tutelarsi scelgono di dimettersi: è il fenomeno del “Big quit” o "great resignations" di cui sentiamo sempre più spesso parlare. Nei primi noi mesi del 2022 ogni giorno in media 8.500 italiani si sono dimessi dal lavoro: il 30,1% in più rispetto al periodo del 2019, prima della pandemia.

«Il lavoratore chiede oggi retribuzioni e qualità della vita migliori. Il welfare aziendale asseconda questi bisogni ed è diventato per molte aziende un insieme di dispositivi utili a supportare la vita delle persone, perché la percezione che hanno di questo servizio supera il lato economico», dichiara Alberto Perfumo, amministratore delegato Eudaimon.

Il diritto a un lavoro sano

«Molte aziende hanno investito sul welfare aziendale perché facilitate delle agevolazioni economiche che permettono di detassare gli strumenti di welfare fino a 3.000 euro, ma in questo modo il rischio è di bypassare la contrattazione tra aziende e lavoratori sui diritti», racconta Giulio Romani, segretario confederale Cisl, «in un contesto in cui ci sono scarse soddisfazioni da parte dei lavoratori e un maggior senso di precarietà, con il 95% di microimprese che costituiscono l’imprenditoria, le aziende devono necessariamente riconsiderare questi aspetti».

Oggi gli strumenti di welfare aziendale sono conosciuti dal 64,9% dei lavoratori e anche se il 19,8% non sa bene di cosa si tratti, i bisogni odierni sono misurabili: il 79,4% chiede soluzioni personalizzate in base al proprio stile di vita, il 79,2% maggiori opportunità di conciliazione tra vita familiare e lavoro, mentre il 79,1% vorrebbe delle integrazioni il reddito, il 78% chiede aiuto per risolvere problemi burocratici nel rapporto con le amministrazioni pubbliche, infine il 68,1% vorrebbe una consulenza psicologica per affrontare le difficoltà quotidiane.

«Il tema più importante ora è che qualcuno prenda in carico seriamente le contrattazioni, è una doverosa necessità per il Paese imprimere delle regole che permettano alle aziende di venire incontro ai lavoratori, rispettando il diritto al lavoro ma anche la produttività dell’industria italiana, che tra il 2020 e 2021 è cresciuta del 20%, così come i salari», ammette Pierangelo Albini, direttore generale area lavoro, welfare e capitale umano di Confindustria.

La foto in apertura è di Daiano Cristini/Agenzia Sintesi

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