Alleanza profit e non profit

Lavoro in carcere, per non tornarci

Una mattinata nella casa circondariale di Como a scoprire un nuovo progetto di Intesa Sanpaolo con la cooperativa sociale Ozanam di Saronno (Va), la Fondazione don Rigoldi e un'azienda tecnologica brianzola. Si cableranno pannelli elettronici per produzioni di robotica. Una filiera elogiata anche del sottosegretario leghista. Poi dalle celle il grido: «Indulto»

di Giampaolo Cerri

Il carcere di Como, il Bassone per i comaschi, è un quadrilatero di marrone chiaro, al culmine di una strada senza sfondo: ci arriva l’autobus della linea 11 che, nelle ore di punta, scarica i familiari che vanno ai colloqui.

Intorno è verdeggiante, siamo nelle piane e nelle valli che conducono al Canturino, non lontana c’è l’Oasi del Wwf e anche i buddisti, per il loro centro spirituale, hanno preso casa non lontano da qui.

Il carcere di Bassone dall’esterno

Si scrive una storia positiva

Oggi qui si scrive una piccola storia positiva, di opportunità e di riscatto, in quello che, da troppo tempo, è un libro nero di disperazione: il sistema penitenziario italiano. Poco prima di spegnere lo smartphone e lasciarlo al corpo di guardia, il whatsapp della collega Ilaria Dioguardi, che il carcere lo segue regolarmente, riporta l’ultima nota di Antigone che, fra i numeri orribili di questo primo semestre carcerario, riporta la cifra dei 12-suicidi-12, nel solo mese di giugno. Far scorrere “spegni” sul monitor dell’iphone significa, idealmente, chiudere con tanta disperazione.

A Como però si presenta una piccola storia nobile, di quelle in cui tutti fanno il loro pezzetto e lo fanno bene: un’azienda for profit, una cooperativa sociale, con l’aiuto di una banca, una fondazione che si occupa di carcere, una direzione carceraria che non s’arrende ai problemi.

I detenuti della Cooperativa Oznam di Saronno illustrano le attività di laboratorio

La filiera buona

Dentro queste alte mura, dove l’intonaco lascia il posto al cemento e di cemento sono le panchine dei cortili per l’aria, viene inaugurato un laboratorio di formazione per 11 tecnici di elettronica: è un’idea che don Gino Rigoldi, instancabile cappellano-ovunque per amore dei detenuti, ha proposto a Intesa Sanpaolo che l’ha realizzato, attivando la filiera: un’azienda di elettronica di Giussano (Mb), la MekTech che produce impianti e sistemi robotizzati, per sistemi elettrici e che ha formato i detenuti, acquisterà nei prossimi anni i pannelli cablati all’interno del carcere, la assunti dalla Cooperativa sociale Ozanam di Saronno (Va).

Intesa Sanpaolo, che è intervenuta con l’area Sociale, la nuova struttura con sede a Brescia e che coorda le molte iniziative di taglio sociale del gruppo e che è guidata al chief impact officer Paolo Bonassi.

Banchieri al Bassone

Al Bassone c’erano tutti. Perché i vertici del primo gruppo bancario ragionano molto di sociale, ci investono un sacco di danaro, guidati da un ad visionario come Carlo Messina. Hanno persino messo a punto, dal 2018, un Piano strategico per la lotta alle diseguaglianze, che non eguali in campo privato. Ragionano e investono, dicevamo, ma poi ci mettono anche la faccia.

Perché a Come c’è anche Stefano Barrese, che guida la potente Divisione “Banca dei territori”, a percorrere a piedi gli oltre 200 metri che dividono il grande cancello esterno dal laboratorio da inaugurare. E c’è la sua collega del Sales & Marketing, Anna Roscio, c’è il già citato Bonassi.

Non siamo proprio in un salotto buono: edilizia penitenziaria anni 70, dove il massimo del colore concesso è l’orribile blu degli infissi di metallo, un must di ogni casa circondariale, concepito da chissà qualche ingegnere in un capitolato dell’Edilpro, la società dell’Italstat che anni fa costruiva tutti gli edifici ministeriali.

Il camminamento fra mura di cinta
e campo da calcio

Un camminamento che costeggia il campo da calcio, dove è in corso una partitella fra detenuti: i due gruppi, noi e loro, il fuori e il dentro, la libertà d’andarsene a prendere un aperitivo o al cinema stasera e l’obbligo di rientrare fra poche decine di minuti fra quattro mura accaldate, i due gruppi si sono sfiorati e guardati, forse studiati, pur continuando, di qua, a parlare di progetti e, di là, a giocare a pallone.


Finché da un uomo sulla cinquantina, seduto sul muretto del bordo campo, ha rotto l’isolamento: salutando don Rigoldi: «Oeh, don Gino!». Il sacerdote s’è avvicinato per salutare e l’altro, per toglierlo dall’imbarazzo di chi non può riconoscere un volto dopo anni: «Ero con lei al Beccaria, nel 1978».

L’ex-cappellano è affettuoso, caccia due battute in milanese ma certamente, come molti altri nel pellegrinaggio aldiquà della recinzione, avrà pensato a come possa essere segnata la vita di un ragazzino che, 48 anni dopo, magari uscendo e rientrando, è ancora in carcere.

Spezzare la recidiva

A spezzare la dannazione della recidiva ci provano appunto gli 11 cablatori di Oznam: nel laboratorio, proprio dirimpetto a una attrezzatissima palestra – «anche questa realizzata coi fondi raccolti dalla piattaforma ForFunding», gongolando giustamente quelli di Intesa Sanpaolo – gli 11 cablatori, dicevamo, con le maglie griffate col nome del fondatore della San Vincenzo, Federico, mostrano raggianti gli schemi dei circuiti su cui lavorano, i morsetti che applicano gli arnesi che utilizzano. Le loro braccia tatuate si muovono veloci e attente sui tavoli da lavoro. Ripetono quanto lavorare li faccia sentire migliori, si premurano di dire che «fra sei mesi toccherà ad altri undici», perché sanno di godere di un grande privilegio, raccontano che gli ha fatto effetto tornare sui banchi, prendere appunti, studiarli.

Padre Zeno, francescano conventuale, cappellano del carcere, osserva e approva: «Ce ne vorrebbero di più di iniziative così: qui ci sono 400 detenuti, un centinaio lavorano nei servizi interni mentre per gli altri…» e alza gli occhi al Cielo sul quale sa di poter contare. Questo religioso veneto, sulla sessantina, che per uno strano caso della vita di cognome fa Carcereri, spiega che guadagnare dietro le sbarre fa anche star meglio anche le famiglie a casa – e alla vicina parrocchia di S.Antonio ne ospitano spesso quando vengono da lontano – ma anche i detenuti all’interno, che si possono permettere un acquisto allo spaccio, un caffè in più.

Da sinistra, don Gino Rigoldi, Stefano Barrese, Andrea Ostellari, Gaetano Sauli e Fabrizio Rinaldi.
Alle loro spalle Paolo Bonassi

Pensieri e tagli di nastro

Prima del taglio di nastro, tutti i protagonisti presentano alla città – invitate le autorità civili e militari lariane – questo piccolo segno di riscatto. Il direttore Fabrizio Rinaldi spiega come sia il frutto di un lavoro comune, ringrazia i collaboratori, lo staff, la Polizia penitenziaria e quegli 11 detenuti che ci mettono passione e cura. La provveditrice Maria Milano pronuncia parole non di circostanza sul valore di queste iniziative, spiega d’aver fatto la parte della «burocrate buona», accertandosi che la formazione fosse anche certificata, il vicepresidente della coop che dare lavoro significa «ri-dare dignità ai poveri»; l’imprenditore Gaetano Sauli che «innanzitutto bisogna sfatare tanti pregiudizi sul carcere» e spiega d’aver per queto chiesto e ottenuto di portare con sé il figlio 16enne per quell’occasione «perché si rendesse conto»; don Rigoldi di quanto ci sia da fare ma che, come recita una maglietta che gli hanno regalato, «Rilassati! Dio c’è ma noi sei tu»; Barresi di come anche quel piccolo laboratorio rientri nei compiti di una banca che sta sui territori e che l’interessarsi di sociale, per Intesa Sanpaolo, sia «un fatto di genetica», citando le fondazioni-madri; Bonassi che «sono 31 i progetti che la banca segue dentro le carceri italiane insieme a soggetti del Terzo settore e alla Caritas» e come, coi suoi del Sociale, non si stanchino d’essere «spacciatori di opportunità».

Il sottosegretario Ostellari, al centro segue l’illustrazione del laboratorio da parte dei detenuti

Dal sottosegretario leghista, concetti poco salviniani

Persino Andrea Ostellari, il sottosegretario leghista, un avvocato padovano prestato alla politica, riesce a dire cose pochissimo “salviniane”, ragionando anche lui di opportunità, ricordando che la certezza della pena è necessaria, come è necessario applicare la Costituzione e che quindi si deve rieducare.

Parla anche uno degli 11. Nessun nome, non importa. Parla un italiano fluente, venato d’accento magrebino, spiega come lavorare faccia star bene, meglio, «anche con la testa», anche verso le famiglie a casa. Applausi, non di circostanza. Anche dal consigliere provinciale con la fascia azzurra di rappresentanza, anche dal giovane colonnello dei vigili urbani di Como e il maggiore del Gruppo Carabinieri non è da meno.

Insomma, vedendo gente che impegna tempo, energie, pensiero, risorse finanziarie, per un piccolo progetto, viene da sperare che qualcosa si possa imbastire, perché il carcere possa smettere d’esser la vergogna che è, con quella dozzina di disperati che, nel solo giugno scorso, han deciso di chiudere con la vita, dopo che la vita gli era stata nei fatti negata.

Quelle urla dalle celle

«Aiutateci», urla una voce dall’alto d’una cella mentre il corteo riprende la via dell’uscita, lungo il camminamento asfaltato fra le mura di cinta e le celle, sfiorando il campo dove l’ex-ragazzino del Beccaria giocava a calcio ma la partitella è finita. La voce arriva da una delle grate di un terzo piano, quasi oscurate da indumenti appesi ad asciugare o a parare il sole. «Indulto!», gli fa eco un altro.

Chissà se anche Ostellari li ha sentiti.

Le foto di questo servizio sono dell’Ufficio stampa di Intesa Sanpaolo, salvo quella in esterno che è dell’autore.

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