Welfare

Lavoro e felicità, binomio possibile

Un saggio del filosofo Umberto Galimberti con il manager delle risorse umane Paolo Iacci mette al centro il tema della soddisfazione professionale. Perché siamo il Paese dove una persona su due afferma di soffrire di malesseri psicologici legati alla propria occupazione

di Redazione

«Nel sentire comune il lavoro sempre meno viene collegato alla felicità. Questa sembra sia possibile dopo il lavoro, malgrado il lavoro e non anche grazie al lavoro». È intorno a questa considerazione che si sviluppa un brillante dialogo tra Paolo Iacci, Consulente di direzione e Docente di Gestione delle risorse umane all’Università Statale di Milano e il filosofo, accademico e psicoanalista Umberto Galimberti.

Il confronto, contenuto nel libro “Dialogo sul lavoro e la felicità” (Egea, 2021) nasce da una domanda che in pochi sembrano avere il coraggio di porsi seriamente, senza cadere nella tentazione di derubricarla a inutile speculazione o alla chiacchiera da bar: il lavoro è una via per la felicità o una maledizione a cui è impossibile sottrarsi?

Destreggiandosi tra echi filosofici e richiami letterari – da Camus a Primo Levi, da Heidegger a Platone passando per Jaspers, Seneca e Dostoevskij – gli autori si calano in una discussione che non offre facili soluzioni, ma spunti per riflettere sull’attuale sistema economico, sugli ostacoli che impediscono all’uomo di realizzare se stesso e su quali strade provare a percorrere per invertire una rotta pericolosa, partendo da una ritrovata (e rinnovata) educazione sentimentale.

Pandemia e grandi dimissioni

Nel mondo riemerso dalla pandemia sempre più lavoratori si interrogano sul ruolo che ricoprono nel proprio impiego e nella società che li circonda. Quasi un italiano su due afferma di soffrire di malesseri psicologici per motivi legati al proprio lavoro, mentre negli Stati Uniti imperversa il fenomeno delle “Grandi dimissioni”, con 4,3 milioni di professionisti che hanno abbandonato il proprio impiego nel solo mese di agosto, un numero che arriva addirittura a 20 milioni, se si parte da aprile. Fenomeni analoghi accadono in Germania e nel Regno Unito.

Alcuni studiosi sostengono che la pandemia abbia funto da detonatore per alcune riflessioni che erano già pronte da qualche decennio. «La pandemia – commenta Iacci – ha spinto la grande maggioranza delle persone a riflettere sulla propria vita e a ridefinirne le priorità. La salute, la famiglia, gli affetti e la felicità vengono oggi considerati molto più importanti del semplice successo lavorativo fine a se stesso. Si è abbassata la soglia di tolleranza verso una vita che non rende felici, a partire dalla dimensione professionale. Molti si stanno ritraendo da un mondo del lavoro che si sta mostrando ancora poco attento alle necessità del singolo.

Si è abbassata la soglia di tolleranza verso una vita che non rende felici, a partire dalla dimensione professionale.

Il lavoro ha una valenza nuova

Nel libro, gli autori scrivono che «nell’attuale “società liquida” il lavoro sta oggettivamente assumendo una valenza diversa rispetto al passato: non più un mero strumento di sostentamento economico o riscatto sociale in un mondo ben strutturato e capace di sostenere l’uomo in tutti i passaggi della vita, quanto uno dei rari punti di tenuta di un legame sociale che è andato allentandosi nel corso di poche generazioni.

«La nostra società è caratterizzata da una progressiva perdita di fiducia nei confronti delle istituzioni, la cui azione molte volte è poco efficace, e da una marcata insofferenza verso molte regole sociali di cui si è persa la funzionalità. Rispetto a un tempo, ognuno di noi è più libero ma anche più solo», evidenzia ancora Iiacci. «È più autonomo, ma anche più responsabile del proprio destino. Le organizzazioni produttive – e quindi il lavoro – molte volte sono chiamate a svolgere un ruolo di supplenza verso queste istituzioni. Le imprese spesso sostengono le persone e le famiglie quando il pubblico da solo non basta. Vale per il welfare, ma lo si è visto molto bene anche durante la pandemia».

Come “erotizzare” il lavoro?

«Nell’ultima indagine svolta dall’Associazione Italiana per la Direzione del Personale – Aidp, sul tema delle “grandi dimissioni”, quando si chiedono i motivi che spingono a lasciare il posto di lavoro le risposte vertono sulle cattive relazioni con il capo, la perdita di fiducia nei confronti dell’azienda e la scarsa autonomia. Tuttavia, evidenzia l’autore, «per la prima volta il 25% del campione parla anche di “mancanza di senso”. Questo dato ci dice che dobbiamo cercare di costruire dei luoghi di lavoro caratterizzati più dalla fiducia che dal controllo, con maggiore attenzione ad ogni singola individualità. Questo però non basta. Dobbiamo anche cercare di capire e condividere il contributo che ogni singola persona apporta alla sua organizzazione e il valore che comporta ogni lavoro, dal più umile al più complesso».

Dobbiamo cercare di costruire dei luoghi di lavoro caratterizzati più dalla fiducia che dal controllo.

A metà del volume circa, Iacci scrive che «nei limiti del possibile, negli spazi che la ferrea logica della tecnica ancora ci lascia, credo che dovremmo cercare di “erotizzare” il lavoro, rendendolo desiderabile e non solo causa di fatica e luogo di tensioni».

Se oziassimo di più saremmo più felici?

Oggi viviamo in un mondo basato sul mito del successo e dove, spesso, solo il possesso di denaro sembra essere basilare per consentire una vita felice. Una società improntata a una logica unicamente produttiva intende lo svago in funzione del lavoro, lo vede come l’inevitabile e momentanea sospensione dalla fatica in vista di una migliore ripresa, di una più alta efficienza lavorativa. «Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?» Così si interrogava Joseph Conrad, grande scrittore polacco naturalizzato britannico, autore tra gli altri di Cuore di tenebra.
«Conrad indica l’importanza – in ogni lavoro – di uno spazio dedicato al momento creativo. Lo svago come semplice astinenza dal lavoro ovviamente è indispensabile, ma in sé non necessariamente produce benessere o felicità, sottolinea Iacci, «Anzi. L’idea che la felicità sia possibile solo dopo il lavoro, malgrado il lavoro, rischia di essere una trappola mortale, soprattutto per i più giovani».

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La foto in apertura è di Jacqueline Munguía su Unsplash

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