Salute
Lavoro di pubblica utilità? Uno strumento né innovato né innovativo
L’analisi delle proposte sociali del governo Lega-M5S dell’ex assessore al Welfare della Calabria Federica Roccisano. «Occorre mettere in evidenza come la direzione presa dal Ministro Di Maio non è affatto nuova, ma è la riproposizione di quelle politiche attive che da un lato generano distorsioni dalla parte del lavoratore e dall’altro generano “dipendenze” da parte dell’ente pubblico ospitante e della politica»
Dalle ultime dichiarazioni del Ministro del Lavoro Di Maio sembra proprio che il reddito di cittadinanza stia cambiando i connotati e che si stia evolvendo in una forma, neanche innovata né innovativa, dei lavori socialmente utili.
Probabilmente qualcuno gli avrà riferito che l’Unione Europea non vede di buon occhio il finanziamento delle politiche passive, e quindi anche Di Maio si trova costretto a ripiegare sulle politiche attive. Purtroppo occorre mettere in evidenza come, dalle sue ultime dichiarazioni, la direzione presa dal Ministro non è affatto nuova, ma è la riproposizione dei lavori socialmente utili, ovvero di quelle politiche attive che da un lato generano distorsioni dalla parte del lavoratore, che vivrà con l’aspettativa della stabilizzazione nel pubblico impiego sin dal primo giorno di esperienza nell’ente pubblico, dall’altro generano “dipendenze” da parte dell’ente pubblico ospitante e della politica che non vorrà più fare a meno di unità lavorative aggiuntive, specie se retribuite da un altro ente superiore.
Eppure, non essendo una politica nuova, basterebbe guardarci indietro e osservare cosa è accaduto negli anni per comprendere che il risultato finale non è l’inserimento lavorativo, e quindi la fuoriuscita da una condizione di bisogno economico e di povertà, ma è l’incremento del numero di precari nella pubblica amministrazione. Nel corso degli ultimi anni tanti lavoratori, soprattutto nelle Regioni del Sud, si sono trovati imprigionati in queste reali “ trappole della povertà”, dove la spesso bassa indennità percepita, pur non essendo un salario occupazionale ma solo un’indennità di tirocinio o lavoro socialmente utile, è diventata l’unica fonte di sostentamento certo tanto da generare dipendenza. A quel punto, in pochi si sono avventurati nella ricerca di un’occupazione nel settore privato che proprio in quelle Regioni è debole ed economicamente povero, e chi riceveva altre opportunità, magari per fare l’insegnante fuori regione, è stato portato a rifiutare nella speranza della stabilizzazione.
Ma se oggi, nel 2018, e dopo decenni di lavori socialmente utili, per alcuni di loro si può parlare, finalmente, di stabilizzazioni, grazie a politiche regionali e nazionali di assorbimento del precariato, non è pensabile che da oggi si tracci un simile percorso per altre migliaia di persone e che lo si venda, per giunta, come una politica innovativa e di cambiamento da chi ha criticato le azioni di bonus e decontribuzione per le assunzioni nel privato, nonostante sia proprio nella produttività che vada ricercata la chiave per il lavoro e per la libertà dell’individuo da ogni forma di assistenzialismo e clientela.
Occorrerebbe cogliere l’invito dell’Alleanza per la Povertà per evitare la riforma della riforma e superare il pregiudizio di parte verso il REI, in modo da supportare con ulteriori fondi uno strumento veramente di cambiamento, di attivazione e di reinserimento delle persone. Ogni tanto, soprattutto in politica, occorre fare dei passi indietro se questo porta dei benefici alla collettività.
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