Economia

Lavoro di cura, un’emergenza di cui nessuno si cura

L'Unità Tecnica di Anffas Nazionale analizza l'attuale carenza di figure professionali sanitarie ed educative da impiegare nei servizi alla persona. Fra le cause, il drenaggio verso il pubblico, che paga le stesse mansioni un 30% in più di quanto il non profit possa fare, stretto da rette che non coprono i costi del servizio. Molte realtà non riescono a rispettare gli standard previsti. Un'emergenza che Vita racconta sul numero di maggio, "Lavoro sociale, lavoro da cambiare", in distribuzione dal 6 maggio

di Redazione

Mai come in questo momento il Paese ha un enorme necessità di lavori di cura. Paradossalmente però nel momento di apice della domanda, i racconti sul campo dicono che il lavoro sociale vive una crisi profonda ed è attraversato da un forte malessere. Molti servizi, senza personale, rischiano di chiudere. Come uscire dall'impasse? Vi proponiamo un'analisi a cura dell'Unità Tecnica di Anffas Nazionale. [ndr]


«Chi cura il lavoro di cura? Al di là del facile giochetto di parole, in questo caso la domanda centra il problema. Il merito di avere svelato la carenza di figure professionali sanitarie ed educative da impiegare nei servizi alla persona – l’ennesima criticità del nostro sistema di welfare – lo dobbiamo attribuire a quanto di più lontano esista rispetto al concetto di “programmazione”: l’imprevisto, il non desiderabile, l’inaspettato. In questo caso, ancora una volta, la pandemia.

Pur in assenza di dati precisi, sulla base dei tanti riscontri che la nostra rete (associativa e gestionale) sta raccogliendo da alcuni mesi, siamo convinti che il problema non solo esista, ma che la decretazione della fine dell’emergenza pandemica gli abbia conferito caratteristiche e dimensioni di vera e propria emergenza. Anche se, a nostro avviso, sarebbe sbagliato affrontarlo solo come un problema urgente.

Ma andiamo con ordine e partiamo dalle connotazioni più spinose del problema. Il sistema dei servizi rivolti a persone con disabilità è, al pari di altri, in carenza, soprattutto, di: infermieri professionali, operatori sociosanitari, ausiliari socio-assistenziali, educatori professionali (siano essi socio-pedagogici che sanitari), medici psichiatri.

L’emergenza e le sue cause

Il profilo emergenziale è facile da raccontare. Per tutti i servizi in regime di accreditamento e convenzione per cui sono previsti precisi e inderogabili standard in termini di dotazione di personale di cura, assistenza, tutela (eccetera) occorre che tali standard siano giustamente rispettati da chi opera. Sottolineiamo “giustamente” perché tale aspetto è uno degli elementi costitutivi della logica istituzionale degli accreditamenti (siano essi in ambito sanitario che sociosanitario che sociale, laddove esistano). Esso infatti contribuisce a ben rappresentare il patto di fiducia tra il cittadino e le istituzioni pubbliche che devono rispettare il mandato costituzionale di garantire il diritto alla salute e all’assistenza, e che decidono di trasferire la funzione operativa a soggetti terzi giudicati idonei a svolgere tali compiti secondo criteri di affidabilità e sicurezza. Inevitabile quindi che all’atto di accreditamento/convenzionamento seguano altrettanto legittimi atti e procedure di verifica e controllo, a loro volta abbinati ad atti e procedure sanzionatorie fino alla revoca dello stesso accreditamento.

Alla base di tale situazione molti elementi, che occorre indagare e risolvere. Brevemente:

  1. È in atto un vero e proprio “drenaggio” di figure professionali dal terzo settore verso il pubblico. ciò trova origine nel fatto che le condizioni economiche e contrattuali garantite nel sistema pubblico risultano, spesso, molto più attrattive rispetto a quelle garantire nel terzo settore a causa di prestazioni e servizi spesso sottopagati che impediscono la stipula di contratti di lavoro in grado di valorizzare le professionalità e garantire adeguati trattamenti salariali.
  2. A ciò si aggiungono le conseguenze del repentino sblocco delle assunzioni nel sistema pubblico che rende praticamente non più reperibili alcune figure professionali per esempio sanitari addetti alle direzioni sanitarie i medici psichiatri con specifiche competente sulle disabilità intellettive e del neurosviluppo.
  3. Analogamente lo stesso sistema “profit”, disponendo di maggiori risorse, risulta più attrattivo rispetto al Terzo Settore.

In ogni caso, quali che siano i motivi, molti servizi alla persona rischiano, cessata la fase emergenziale, di ritrovarsi a fare i conti con il mancato rispetto degli standard e quindi entrare nei regimi sanzionatori. Un ulteriore indebolimento che ridurrebbe la già difficile azione di sostegno alle persone con disabilità e loro familiari minata non solo dagli ultimi due anni di pandemia, ma dal perdurare di una situazione di incertezza sulle misure da adottare per proteggere utenti, familiari e operatori da una situazione sanitaria che non attenua le responsabilità in capo agli enti. Riteniamo anzi che la decretazione della fine della situazione di emergenza non dovrebbe riguardare tutti quegli aspetti che, da ieri, da domani, o da dopodomani dovessero emergere quali conseguenze della pandemia (e questo da ogni punto di vista: sanitario, assistenziale, sociale, economico).

Constatata l’impossibilità di reperire personale, che fare?

A nostro avviso è indubbio che le Regioni debbano, constatata l’oggettiva impossibilità di reperire le figure professionali previste dagli standard, dotarsi di normative transitorie che deroghino dai criteri di accreditamento (e relative procedure di sorveglianza) da esse stabilite. Deroghe da intendersi non solo in termini quantitativi o temporali, ma anche in relazione ad aspetti legati ai “mansionari” attribuiti alle diverse figure professionali impiegate nei servizi, purché rispettose dei diritti inderogabili delle persone che fruiscono dei servizi (dignità e sicurezza in primo luogo), oltre che delle deontologie professionali dei diversi profili professionali. Un esempio per capirci: la somministrazione dei farmaci in favore di persone con disabilità deve essere sempre ed esclusivamente considerato una prestazione sanitaria e quindi, in quanto tale, esercitata da personale sanitario, o vi possono essere (anzi, noi diciamo: devono esserci) criteri di flessibilità non solo in ordine alla difficoltà di garantire gli standard, ma anche per il raggiungimento di obiettivi di inclusione sociale? La soluzione potrebbe stare nella valutazione (tramite ICF) delle capacità della persona con disabilità di poter rispettare e gestire, con gli opportuni sostegni personalizzati, una routine che renderebbe evidente l’irragionevolezza della presenza a tutti i costi di una figura sanitaria specializzata.

Partendo dall’esempio sopra descritto, appare evidente che il problema non possa, come già detto, essere affrontato solo in termini emergenziali (deroghe, proroghe, flessibilità, ecc.), ma che si debba aprire una grande e profonda fase di confronto che coinvolga le istituzioni deputate a determinare le politiche e i programmi dell’istruzione e della formazione, gli enti che utilizzano le competenze professionali, le organizzazioni di rappresentanza dei fruitori (nel nostro caso persone con disabilità e loro familiari) e le organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici.

Occorre insomma a nostro avviso avviare un processo di riforma e aggiornamento delle competenze professionali coerente con il processo di riforma delle politiche rivolte alle persone con disabilità avviato con l’entrata in vigore della L.227/2021. Come possiamo pensare di adeguare il sistema dei servizi alla persona (settore disabilità) se non si dispone di una nuova generazione di operatori e operatrici capaci di: progettare individualmente, lavorare in modo integrato, agire non solo nei confronti della persona ma anche dei contesti di vita, agire consapevolmente rispetto ai temi della lotta alle discriminazioni, all’abbattimento delle barriere, all’utilizzo adeguato del principio degli accomodamenti ragionevoli, etc.?

Un'iniziativa nazionale

Anffas Nazionale ha deciso di avviare al riguardo una specifica iniziativa, discussa e condivisa nell’unità tecnica nazionale che accompagna e sostiene sotto il profilo tecnico le azioni politiche dell’Associazione. Una iniziativa articolata su tre livelli:

  1. Rilevare le carenze delle figure professionali necessarie al funzionamento dei servizi. Come sempre, per ben governare i processi e determinare le scelte più adeguate e opportune occorre conoscere. La rilevazione si appoggerà ai livelli regionali e territoriali e punterà a ridurre la percezione del fenomeno per sostituirla con una maggiore consapevolezza basata sui dati;
  2. Sostenere i livelli regionali dell’Associazione affinché si compiano rapidamente azioni verso le Regioni per definire atti di deroga ai requisiti di accreditamento, agendo sia in termini di flessibilità che di revisione degli attuali mansionari e profili delle competenze e responsabilità professionali (chiaramente in intesa sia con le rappresentanze degli enti gestori che con le rappresentanze sindacali);
  3. Agire verso il Ministero dell‘Università e della Ricerca che ben potrebbe, sul punto, anche cogliere la spinta riformatrice del PNRR in termini di riforma del sistema universitario, per determinare l’inserimento nei percorsi abilitanti delle diverse professioni sociali e sanitarie specifici e adeguati percorsi di apprendimento sui temi della disabilità e, nello specifico, della disabilità intellettiva e dei disturbi del neurosviluppo, in coerenza con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e dei contenuti presenti nella L.227/2021»

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