Modesta proposta, concreta e penso fattibile: un piano straordinario, biennale, per collocare – veramente – al lavoro almeno cinquantamila persone con disabilità all’anno. Dite che sono impazzito? No, penso proprio di no. Centomila cittadini italiani disabili che escano dal circuito dell’assistenza e dell’inutilità produttiva segnerebbero una svolta impressionante nelle politiche di welfare del nostro Paese. Vorrebbe dire che centomila famiglie italiane avrebbero una effettiva riduzione del carico economico. Lo Stato non dovrebbe erogare almeno centomila pensioni di invalidità, e non per tagli lineari e indiscriminati, ma perché, lavorando, decade il diritto alla pensione (rimane eventualmente solo la necessaria e perequativa indennità di accompagnamento).
Parto dalla constatazione che il tasso di non occupazione delle persone disabili è in Italia assolutamente disastroso e iniquo. Penso che questa situazione sia determinata da diversi fattori. Innanzitutto uno stigma sociale quasi insuperabile che ha convinto il mondo delle imprese, private ma anche pubbliche, che assumere un lavoratore disabile è l’ultima delle cose da fare. Meglio pagare una multa (tutt’altro che gravosa) piuttosto che inserire in azienda un Venusiano, che non si conosce, che si teme, che si cerca di esorcizzare, magari facendo finta di essere politicamente corretti attraverso simboliche azioni di responsabilità sociale d’impresa.
I numeri sono impietosi : solo il 3 per cento, ricorda la Fish, delle persone con disabilità ha come fonte principale un reddito da lavoro. Ma vi sembra possibile? Un serio programma per la ripresa economica dovrebbe prevedere un piano preciso e nuovo di incentivi alle aziende (serie) che si impegnino ad occupare stabilmente giovani e adulti con disabilità, collocandoli al posto giusto. Ipotizzare cinquantamila nuovi posti di lavoro all’anno è forse realistico per difetto, non per eccesso. A patto che si lascino da parte ipocrisie e buonismi inutili. Cominciamo a dare lavoro a chi effettivamente ha maturato le competenze (penso ai quindicimila studenti universitari disabili nei nostri Atenei), a chi può tornare al lavoro dopo un incidente o un trauma, a chi ha sviluppato capacità professionali legate all’utilizzo delle nuove tecnologie e dunque può operare (anche, ma non solo) in modalità di telelavoro, a tutti coloro che si sono rivolti negli ultimi anni agli uffici provinciali del collocamento mirato ottenendo valutazioni positive ma non sono poi mai stati chiamati a seri colloqui di lavoro. Penso insomma che in una prima fase si debba dare lavoro – lavoro vero – a chi effettivamente è in grado di lavorare e di dimostrare competenze e capacità. Ovviamente nulla impedisce di proseguire nel tentativo, spesso riuscito, di collocare in situazioni di lavoro più o meno protetto (cooperative sociali di tipo B, ad esempio) anche persone che presentano difficoltà più consistenti di adattamento ad attività produttive.
Ma il patto di solidarietà vera, concreta, possibile qui e adesso, dovrebbe consistere in primo luogo in una “discesa in campo” di tutti quei cittadini disabili che ormai sembrano quasi rassegnati a vivere al minimo, accontentandosi di percorsi assistenziali, di servizi pubblici, di pensioni minime. Liberare dal percorso assistenziale centomila cittadini italiani in due anni significherebbe liberare contemporaneamente una notevole quantità di denaro pubblico da destinare subito ad aiutare le famiglie e le persone con disabilità grave, in situazione di reale non autosufficienza.
E’ una sfida che dovrebbe veder scattare al volo le migliori energie delle organizzazioni sindacali, del mondo delle imprese, del commercio, dei servizi, degli enti pubblici (le cui piante organiche presentano, da questo punto di vista, buchi imbarazzanti). Ho lavorato per tanti anni e se la mia vita è sempre stata positiva e ricca di opportunità è proprio perché sono stato libero dal bisogno, e libero dall’assistenza. Ho pagato e pago le tasse, contribuisco al Pil, e adesso che ho bisogno di aiuto, e di assistenza domiciliare, per la prima volta nella mia vita, mi rendo conto di quale enorme fortuna io abbia avuto.
Vorrei, avvicinandomi ai sessant’anni, passare il testimone a una nuova generazione di lavoratori, di impiegati, di professionisti, di giornalisti, di ingegneri, di informatici, che vengano messi alla prova, e impegnati in attività normali di lavoro, come tutti. Un’azione forte e condivisa, che parta da questo Governo e segni una discontinuità con gli ultimi anni di crescente non applicazione della legge ’68 del ’99, penso che sia davvero possibile, e doverosa.
Lavori chi può. Tutto qui, niente di straordinario. Ci possiamo provare?
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