Economia
Lavoretti e gig economy: quando la Svizzera segna il passo
Il recente parere della Segreteria di Stato dell'economia svizzera (Seco), secondo cui gli autisti impiegati dall'impresa di trasporto Uber devono essere considerati lavoratori dipendenti a tutti gli effetti, è sicuramente importante, perlomeno come indicazione di principio
Il recente parere della Segreteria di Stato dell'economia svizzera (Seco), secondo cui gli autisti impiegati dall'impresa di trasporto Uber devono essere considerati lavoratori dipendenti a tutti gli effetti, è sicuramente importante, perlomeno come indicazione di principio. È risaputo, infatti, che Uber, come altre aziende della cosiddetta gig economy, o economia dei lavoretti (fra cui troviamo Airbnb, Foodora…), considera i propri collaboratori come lavoratori indipendenti, una sorta di “imprenditori di sé” che, mettendo a disposizione la propria automobile o il proprio appartamento, partecipano a quella “economia della condivisione” (sharing economy) che tanto piace agli ideologi del nuovo capitalismo delle piattaforme.
Dimenticando che chi vi lavora prende di solito salari da fame, lavora a ritmi indecenti e non beneficia di alcuna copertura assicurativa, come denunciato dal sindacato Unia e dalla trentina di autisti dipendenti di Uber che in dicembre hanno scioperato a Ginevra. Dimenticando, anche, che queste aziende pagano tasse risibili nei Paesi dove producono utili, impoverendoli e avviandoli a un futuro senza welfare. Ciò “che aumenterà il bisogno di lavoretti per arrotondare, in una spirale senza fine” come sostiene giustamente Riccardo Staglianò in un suo libro appena pubblicato (Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri, Einaudi, Torino, 2018).
È ancora difficile dimensionare statisticamente questa realtà economica emergente, in termini sia di posti di lavoro creati che di reddito generato. È certo però che, anche in Svizzera, stiamo assistendo ad una specie di “uberizzazione” della società, se è vero che negli ultimi anni sono fortemente aumentati i posti di lavoro a tempo parziale (siamo ormai al 38%, un record europeo!). Non solo aumenta il part-time, ma aumentano i lavori di durata sempre più breve, quei lavoretti che si accettano di fare per arrotondare, per compensare a livello di economia domestica la perdita di reddito dovuta alla stagnazione o riduzione dei salari. Non è un caso se la maggior parte dei posti di lavoro creati recentemente siano, appunto, lavori a tempo parziale e, soprattutto, posti di lavoro occupati da donne.
Se poi si considera che molti di questi lavori a tempo (molto) parziale sono spesso accompagnati dal vincolo (a volte addirittura scritto) della disponibilità del dipendente nel suo tempo libero a tornare al lavoro se il datore di lavoro lo richiede, ci si rende conto che, di fatto, la cosiddetta uberizzazione della società altro non è che una messa al lavoro della vita intera. Biocapitalismo, per intenderci.
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