Welfare

Lavoratori vulnerabili: è allarme

I lavoratori con contratti precari o con altre condizioni sfavorevoli di lavoro sono in aumento. I dati sono emrsi dalla 2a Conferenza Internazionale sul tema “Vulnerable Workers and Precarious Work in a Changing World” organizzata dall’ANMIL

di Redazione

Proseguono a Londra i lavori della tavola rotonda promossa da Anmil  in collaborazione con l’ADAPT (Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del Lavoro e sulle Relazioni Industriali), il CSMB (Centro Studi Internazionali e Comparati “Marco Biagi” dell’Università di Modena e Reggio Emilia) e la Middlesex University Business School.

Si sono svolti finora con grande interesse da parte degli oltre 200 partecipanti iscritti al fitto programma di interventi che coinvolge, in qualità di relatori, ricercatori, esperti ed accademici provenienti da 20 diversi paesi del mondo, e prevede il contributo di oltre 40 paper selezionati sull’argomento con l’obiettivo di incentivare la ricerca e il dibattito scientifico su questioni emergenti collegate al lavoro precario.

Le relazioni che emergeranno dalla Conferenza in svolgimento nella capitale britannica, presso la Middlesex University Business School (Hendon Campus, The Burroughs, NW4 4BT) sui temi della sicurezza e della salvaguardia della salute dei lavoratori vulnerabili saranno oggetto di un’ampia pubblicazione.
Stando alla definizione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e della Commissione sui lavoratori vulnerabili del Trade Union Congress Britannico, questi rappresentano quelle categorie di lavoratori piùfacilmente esposte a condizioni di lavoro sfavorevoli per motivi soggettivi (sesso, nazionalità, età, condizione di disabilità) ed oggettivi (es. la tipologia contrattuale non standard o atipica attraverso cui viene resa la prestazione lavorativa, ovvero le basse competenze professionali). In particolare, sono proprio i disabili, le donne, gli immigrati, i giovani e gli over 50, ad essere i più sottoposti a limitate tutele contrattuali, previdenziali ed assicurative, oltre che ad una scarsa salvaguardia della salute e della sicurezza in ambito lavorativo, con orari e turni di lavoro logoranti, trattamenti economici discriminatori e mansioni più pericolose ed usuranti.

Come se non bastasse, a queste situazioni svantaggiose spesso si aggiungono: mancato riconoscimento di permessi parentali e della retribuzione nei giorni di assenza per malattia, lavoro irregolare, discriminazione, violenza, precarietà dell’impiego, scarsa tutela e rappresentanza degli interessi a livello sindacale, limitato potere negoziale e isolamento.
Tuttavia va detto che la presenza in contemporanea di una o più di tali condizioni non produce automaticamente gli effetti negativi ipotizzati, ma certamente contribuisce ad aumentare la possibilità che si verifichino conseguenze avverse.
Peraltro, un’ampia e autorevole letteratura internazionale sul tema dimostra l’interesse da tempo crescente su tali questioni, dovuto anche al fatto che si stanno delineando vere e proprie tipologie di rischi nuovi ed emergenti per la salute e la sicurezza sul posto di lavoro.

Uno studio del 2007, realizzato dall’Agenzia Europea per la Salute e la Sicurezza sul Lavoro (Expert Forecast on Psychosocial Risks related to Occupational Safety and Health,) ha rilevato che: in Spagna la precarietà riguarda il 33% dei lavoratori; in Portogallo il 19%; in Finlandia il 16,5% e in Svezia il 16%; più ridotta tale condizione nel Regno Unito (6%), nel Lussemburgo (5,3%) e in Irlanda (4%). Dal canto loro, i dati EUROSTAT al 2005 dimostrano che nell’UE a 25 la condizione di precarietà riguarda il 15% delle donne e il 14% degli uomini.
Se questi dati si confrontano con quelli dell’indagine svolta nel 2009 sui Paesi membri dell’Unione Europea (Commissione Europea, Discrimination in the EU, Special Eurobarometer) si ha un quadro davvero allarmante a causa dell’incidenza negativa di suddetti fattori sui lavoratori quando, a parità di competenze e di capacità con i loro colleghi, sono destinatari di misure sfavorevoli o vengono addirittura licenziati. Tra i fattori maggiormente svantaggiosi la condizione di disabilità occupa addirittura il terzo posto in termini percentuali (37%). Inoltre, quando ai lavoratori è stata posta la domanda se negli ultimi 12 mesi si fossero sentiti discriminati sulla base di almeno uno di tali fattori, il 16% degli stessi – su tutta l’Unione Europea – ha risposto positivamente e rispetto ai singoli paesi, è emerso che tale percentuale risulta particolarmente elevata in Italia (22%); Austria (22%); Ungheria (20%); Regno Unito (20%); Svezia (20%); Repubblica Ceca (18%); Lussemburgo (17%); Belgio (17%) e Slovacchia (17%).
Per sottolineare il proprio contributo, l’ANMIL – con i suoi 70 anni di attività nel settore a sostegno delle vittime del lavoro, delle persone con disabilità e dei loro familiari – sta portando l’esperienza italiana anche nell’ambito di una importante sessione dedicata al tema della disabilità e dell’inserimento nel mercato del lavoro che si svolge nel primo pomeriggio di quest’oggi e sarà coordinata dal Presidente nazionale Franco Bettoni e, tra gli altri, per l’ANMIL prevede gli interventi la Dott.ssa Angela Vetrano Responsabile Ufficio Servizi Istituzionali, la Dott.ssa Maria Giovannone Direttore Scientifico ANMIL Sicurezza e la Dott.ssa Alessandra Innesti, ricercatrice.

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