Economia
«Lavorare per l’inclusione era nel mio destino»
Parola di Claudio Soldà, Csr & public affairs director di The Adecco Group Italy. Nella seconda puntata della nuova rubrica di VITA, il manager racconta il suo impegno nel mondo del volontariato, gli incontri e l'amicizia con le persone disabili fin da quando era ragazzo e l'intreccio che queste esperienze hanno ancora oggi con la sua avventura professionale, che si confronta ogni giorno con il destino di migliaia di persone al lavoro
Le aziende, anche quelle grandi, sono fatte di storie. Una di queste, nella seconda puntata della rubrica I volti della sostenibilità, ce la racconta Claudio Soldà: è la sua. Da Torino, dove si trovava per terminare gli studi di economia, inizia a lavorare nella filiale di Adecco, con una responsabilità di tipo commerciale. Siamo nei primi anni Duemila. Ben presto però, Soldà, oggi Csr & public affairs director di The Adecco Group Italy e per quindici anni segretario generale della Fondazione Adecco, ritrova sulla sua strada professionale un tema che lo ha coinvolto fin da ragazzo.
Parliamo della sostenibilità, naturalmente.
Credo che sia nel mio Dna. Ognuno di noi ha un compito di vita, che è segnato. Si tratta di scoprirlo nel proprio percorso. Per una serie di esperienze e vicissitudini, posso dire che, probabilmente, il compito della sostenibilità mi appartenesse.
Come mai?
Fin dalle scuole medie ho sempre vissuto in modo diretto il tema della diversità e disabilità. Il mio compagno di classe più stretto era un ragazzo con la sindrome di down. Poi, ironia della sorte, la vita ci ha fatto vivere la disabilità in famiglia e questo ha rafforzato in me la propensione al tema della diversità e della disabilità.
Che cosa ha scoperto di questo mondo?
Quando un tuo familiare ha una disabilità importante, per giunta a causa di una malattia rara, entri in contatto con le associazioni non profit e le famiglie che vivono il tuo stesso problema e danno un supporto in situazioni che non ricevono una copertura dalle istituzioni pubbliche. Questa attività di “volontariato obbligato”, per mia scelta, è poi diventata un impegno a entrare in maniera piena nella vita associativa.
Come questa esperienza si è innestata nel suo lavoro?
Terminati gli studi in economia e commercio, sono entrato in Adecco. Nove mesi dopo, la società ha deciso di costituire, come avvenuto poco prima in Spagna, una fondazione dedicata all’inclusione lavorativa proprio delle persone con disabilità. Forse anche grazie alla mia esperienza personale, ho avuto la fortuna di essere scelto per sviluppare quel progetto, che ho portato avanti fino al 2016, prima come direttore operativo poi come segretario generale.
È l’inizio della Corporate social responsibility.
Infatti, dall’attenzione iniziale per le persone con disabilità, nei primi tre o quattro anni di attività abbiamo allargato il campo ad altre categorie di persone che non sarebbero state in grado di inserirsi nel mercato del lavoro in autonomia: dagli over 50 ai disoccupati di lunga durata, dalle donne con carichi di famiglia ai giovani neet e, successivamente, anche ai rifugiati e ad altre situazioni di fragilità. Il percorso della Fondazione ha costituito una prima base di sviluppo della dimensione sociale nel Gruppo che, però, non poteva fermarsi qui.
In che senso?
Era chiaro che il tema della sostenibilità non potesse essere ricondotto al solo strumento della Fondazione. Nel 2005, ho assunto anche il ruolo di Csr manager per il Gruppo Adecco, con una strategia volta ad analizzare il nostro impatto verso tutti gli stakeholder: dipendenti diretti, lavoratori presso le aziende clienti, fornitori, azionisti, fino ad arrivare a istituzioni, ong e all’ambiente.
Per un’azienda come la vostra, la priorità è la sostenibilità sociale più che ambientale?
Siamo una realtà di persone che si rivolge alle persone, in un ambito delicato quale è il lavoro, inteso come strumento per realizzarsi, diventare indipendenti, promuovere le proprie competenze e costruire l’aspettativa del futuro. In questo senso, l’impatto del nostro operato nell’ambito sociale è molto grande: in termini di parametri Esg, possiamo dire che ci siamo mossi prima sulla Esse, alzando via via l’attenzione sugli aspetti ambientali.
Ad esempio?
Il 70% del nostro impatto ambientale deriva dalla mobilità. Ci sono tremila persone, ossia il numero complessivo dei collaboratori del nostro Gruppo in Italia, che ogni giorno si muovono per andare a lavoro: la scelta se prendere il treno, l’auto o muoversi con i mezzi pubblici muove l’asticella dell’impatto ambientale: per noi è importante contribuire ad innalzare la consapevolezza in questo ambito.
Come misurate il vostro impatto sociale?
Adecco Italia introduce oggi al lavoro circa cinquantaseimila persone presso quasi diecimila aziende clienti. Questo ci dà la dimensione di quanto sia rilevante l’impatto sociale. Come è noto, il contesto in cui operiamo è fortemente regolato e quindi il nostro primo impegno è quello di capire se e come tutte queste regole vengano rispettate, con relativi margini di miglioramento.
Il discorso è ampio, ma quali sono i principali parametri?
Quelli legati ai temi tipici delle risorse umane, tra i quali la non discriminazione, il rispetto degli orari di lavoro e dell’effettiva volontarietà degli straordinari, la parità retributiva di genere e la tutela dei minori in età lavorativa. Altri indicatori riguardano l’attività di informazione e orientamento nelle scuole superiori, il numero di lavoratori ai quali abbiamo offerto un percorso di apprendistato e il numero di infortuni rilevati ogni anno.
Che cosa si aspettano le persone che lavorano nel Gruppo Adecco?
La richiesta più frequente riguarda la gestione dei carichi di lavoro per una maggiore conciliazione tra vita privata e professionale.
Parlare di sostenibilità per un’azienda che “lavora sul lavoro” significa forse parlare di sostenibilità del mercato del lavoro tout court. Lei sente questa responsabilità?
Il nostro claim – far funzionare il futuro per tutti – ci impegna in questa direzione: i nostri obiettivi strategici sono quelli di essere riconosciuti come il datore di lavoro ideale, come il partner più affidabile per le aziende clienti e come un soggetto che contribuisce a dare una protezione sociale per tutti i lavoratori, in qualunque situazione di transizione si trovino.
Quest’ultimo obiettivo sembra davvero sfidante.
Per come sta evolvendo il mercato del lavoro, sì. L’obiettivo per noi è costruire un mondo del lavoro in cui una persona, a prescindere dal tipo di contratto che ha, possa godere di una protezione sociale che la supporti nelle situazioni critiche.
Qual è la prospettiva?
Quella di percorsi sempre più flessibili. D’altra parte, l’evoluzione delle tecnologie porterà già i nostri figli e le generazioni successive ad avere un numero più elevato di esperienze lavorative rispetto a quelle precedenti. Avremo più carriere professionali dentro una traiettoria professionale unica che ci porterà a lavorare fino a 75 o 80 anni.
Detta così, spaventa un po’…
Per chiarire meglio il contesto, parliamo delle professioni slegate dalle attività fisicamente più logoranti che nelle nostre società saranno sempre meno numerose. La carenza di nuovi giovani, associata alla migliore condizione di salute delle persone e alle difficoltà del sistema pensionistico, ci porterà nei prossimi decenni a lavorare più a lungo anche se in modi diversi.
È l’addio definitivo al posto fisso?
L’evoluzione di cui parliamo non implica più i trenta o quarant’anni di carriera unica – presso una o poche aziende per l’intero arco della vita professionale – ma l’avere più traiettorie, caratterizzate da altrettanti periodi di transizione durante i quali saranno necessarie misure di supporto, in termini di formazione e sostegno al reddito.
Quale sarà il vostro ruolo?
Accompagnare sempre più le persone nei “momenti cerniera” della vita in cui si fa più fatica a trovare un soggetto, un interlocutore professionale capace di orientare oltre che di trovare una nuova occupazione. Noi vogliamo essere uno di questi soggetti.
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