Ancora una volta ho scritto nella mia pagina di facebook una frase sgorgata di getto, dopo ore di telegiornali e di talk show dedicati all’articolo 18: “L’art. 18 fa parte della nostra storia civile, non c’è dubbio. Ma non ho mai visto i sindacati minacciare uno sciopero generale per chiedere l’applicazione della legge 68 del ’99 per il lavoro alle persone con disabilità. O mi sbaglio?” . A giudicare dalla valanga di “mi piace” in poche ore (circa trecento) e di condivisioni sulle bacheche personali di 45 miei “amici” di ogni tipo e tendenza politica, devo dedurne che ho toccato un nervo scoperto e ho espresso un pensiero, in modo credo del tutto civile e rispettoso, che però apre una riflessione più vasta e forse ha bisogno di qualche aggiunta, qui, dove le parole mi vengono con facilità.
Il mio rammarico infatti è in sostanza questo: si rischia ancora una volta di non cambiare seriamente il sistema di accesso e di mantenimento del lavoro perché attorno a un simbolo glorioso si concentra una battaglia da Armageddon, che sembra non consentire vie d’uscita. Sgombro subito il campo da qualsiasi dubbio: anche io sono un uomo del Novecento, e ricordo bene con quale orgoglio ho vissuto la fase politica e sociale che ha consentito, nel nostro Paese, il varo dello Statuto dei Lavoratori, in un’epoca differente, complicata e spesso drammatica, ma che vedeva l’economia, l’industria, il Paese in crescita e con l’occupazione a livelli mai più raggiunti. L’articolo 18 fu un punto fermo di un percorso di tutela sostanziale del posto di lavoro, e tuttora, con le limitazioni che ha già ricevuto, ha una sua funzione importante di garanzia contro i soprusi e gli avventurismi. Sono fra coloro che ritengono assurdo e persino inutile concentrarsi su questo punto per decidere se approvare o mandare all’aria il disegno complessivo del Jobs act del governo presieduto da Renzi.
Ma se oggi i sindacati vivono il punto più basso di popolarità e di condivisione generale da parte dell’opinione pubblica, anche di sinistra, questo è dovuto anche ad alcune storiche e congenite pigrizie culturali e a precise dimenticanze di impegno e di lotta. Fra queste c’è sicuramente una insufficiente mobilitazione a sostegno della piena applicazione, nel settore pubblico e nel settore privato, della legge 68 del 1999, quella per il collocamento mirato delle persone con disabilità. Una legge frutto di un compromesso, come del resto sempre accade in Italia e non solo in Italia. Ma pur sempre una legge avanzata che avrebbe potuto negli anni seguenti alla sua entrata in vigore contribuire progressivamente alla riduzione della drammatica forbice esistente tra i livelli di disoccupazione generale e i livelli della disoccupazione dei potenziali lavoratori disabili. Ormai si parla di disoccupazione strutturale, con percentuali che superano il 70 per cento. Una causa quasi persa, sia pure con alcune situazioni di eccellenza, e tenendo conto del ruolo prezioso svolto dalle cooperative sociali (specie per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità intellettiva, doppiamente penalizzati). Le aziende come è ampiamente noto preferiscono quasi sempre pagare una multa piuttosto che assumere una persona con disabilità. Il percorso di ingresso al lavoro passa attraverso la mediazione pubblica, le Province (che sono in fase di sparizione…), le associazioni di tutela, le cooperative, il sistema delle doti. Insomma tutto tranne il tradizionale confronto tra impresa e lavoratori garantito dalla combattività dei sindacati.
Sappiamo tutti che è difficile convincere i lavoratori non disabili a battersi per fare largo a persone che, nell’immaginario collettivo, subiscono uno stigma e un pregiudizio pesantissimi. Ma è anche vero che i sindacalisti che si battono seriamente anche per il lavoro delle persone disabili li conosciamo per nome, uno ad uno, regione per regione. E’ difficile dunque immaginare che adesso, da questo mondo tartassato ed emarginato, arrivi una solidarietà attiva per una battaglia di bandiera che nel migliore dei casi viene condivisa soprattutto nel timore che, caduto l’articolo 18, si arrivi di conseguenza a cancellare altre tutele, fino ad arrivare (come già si ipotizza) a eliminare ad esempio l’indennità di accompagnamento.
Si tratta insomma di una questione delicata e complessa, nella quale gli stati d’animo, le storie, le delusioni, le speranze, le rabbie accumulate, giocano un ruolo importante, quasi decisivo. Penso che questo sia il momento di concentrarsi seriamente sui contenuti della riforma, cercando casomai di alzarne il livello di inclusione e di tutela sostanziale, costruendo nuove alleanze sociali, con chi oggi si sente escluso dal mondo del lavoro e persino dal precariato. Non è un tema che riguardi solo la disabilità, ovviamente. Ma vorrei che fosse chiaro: l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità, quando avviene e funziona, modifica l’ambiente di tutti (dalle barriere fisiche a quelle mentali, dall’organizzazione degli spazi alla flessibilità e idoneità delle mansioni e delle competenze) e lo modifica in meglio. Le aziende pubbliche e private che utilizzano bene e in modo convinto i lavoratori con disabilità fisica, sensoriale o intellettiva, sono aziende migliori, dove il lavoro è un valore anche umano da condividere e supportare ogni giorno.
Insomma proviamo a lavorare meglio, e a lavorare tutti. E con questo spirito proviamo anche a smontare le barricate sull’articolo 18.
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