Cultura
L’autolesionismo italiano sulla cittadinanza
Il caso di Serine e degli atleti italiani senza cittadinanza come esempio di un sistema da superare. Li definiscono “nuove generazioni italiane”, e prima “seconde generazioni”, ma in definitiva sono semplicemente “italiani senza cittadinanza”.
Domenica sera, diretta TV su Rai Sport. Sirine sale sul ring di Avellino per la finale del campionato italiano di boxe femminile, categoria 57 kg.
Aveva deciso di lasciare la boxe per qualche mese, per poi decidere di riprovarci. La boxe è la sua passione. Incastra come può gli allenamenti tra l’Università e la necessità di lavorare per aiutare la famiglia. Ma, soprattutto, Sirine è brava e la boxe sa farla come pochi. E infatti vince l’incontro e diviene campionessa italiana.
Per un’altra sua coetanea, il resto della storia potrebbe essere tranquillamente questo: serata di festeggiamenti, qualche intervista, poi la convocazione in nazionale, e magari il sogno delle Olimpiadi di Tokyo.
Per Sirine no. Passino i festeggiamenti: non le si possono negare anche quelli. Ma niente nazionale. E, di conseguenza, niente Olimpiadi. Perché a Sirine manca un dettaglio: la cittadinanza italiana.
Sirine Charaabi, è nata in Tunisia, ma solo perché la madre ha deciso di andare a partorire nel suo Paese di origine, per avere il supporto della famiglia. Dopodiché, è in Italia da subito dopo la nascita. Ma poco sarebbe cambiato, non essendoci in Italia lo ius soli.
La domanda di cittadinanza l’ha presentata da più di due anni. Poi, ai soliti ritardi della burocrazia nostrana, si è aggiunto il Decreto Salvini, che ha portato il termine massimo per il completamento delle pratiche di cittadinanza da 2 a 4 anni. Con effetto retroattivo: perché, se bisogna peggiorare le cose, va anche fatto bene. Le modifiche apportate dal Decreto Lamorgese hanno riabbassato (si fa per dire) i tempi da 4 a 3 anni. Ma senza retroattività. Perché per migliorare le cose, invece, c’è sempre tempo. Dunque, per Sirine l’attesa è, con molta probabilità, ancora lunga.
Il caso di Sirine riguarda migliaia di persone come lei, atleti o meno poco importa. Ma il caso degli atleti è almeno utile per capire meglio il livello di autolesionismo al quale può arrivare il nostro Paese. Alcuni casi, ogni tanto, arrivano al grande pubblico, come quello di Danielle Madame. Ma quel poco di dibattito che scatenano si arena rapidamente.
Certo, bisogna dire che Sirine le ha proprio sbagliate tutte.
Innanzitutto ha sbagliato sport: sarebbe stato meglio il calcio. Poi ha sbagliato a nascere donna, perché il calcio femminile non è ancora così seguito e, dunque, “potente”. Infine, ha sbagliato Paese di nascita: meglio sarebbe stato un Paese sudamericano. Sirine Suarez avrebbe calzato a pennello.
Senza tutti questi errori plateali, probabilmente ora sarebbe in nazionale da anni.
Casi come questi mi pongono molte domande sui criteri e le ragioni con le quali vengono scritte le leggi in Italia, e non solo su quello.
Il problema di base, nel caso della cittadinanza, è innanzitutto lessicale, che sembra un dettaglio ma non lo è affatto. In Italia la cittadinanza viene “concessa”. Non è un diritto, qualcosa che hai (in base certamente a dei requisiti) e deve semplicemente esserti “riconosciuto”. È una concessione, quasi un atto benevolo, per giunta persino revocabile a determinate condizioni.
Di conseguenza, dovendo decidere se concedertela, lo Stato si prende i suoi tempi. D’altronde dovete immaginare la mole immane di lavoro necessaria: verificare la residenza continuativa da 10 anni e se non hai commesso determinati reati. Tutte cose che un qualsiasi computer, connesso ad un database aggiornato, può fare in un paio di millisecondi.
Poi ti chiede anche l’esame di italiano, anche se probabilmente è l’unica lingua che conosci. Magari davanti ad una bella commissione di veri italiani che ti riceve con un “Signorina (sic), si assietti!”.
Alla fine, più che una concessione è un accanimento. E non è neanche detto che si concluda positivamente.
La questione degli atleti italiani senza cittadinanza mostra ancor più la demenzialità di questo sistema. La gran parte delle federazioni sportive consentono agli atleti in attesa di cittadinanza di competere nei campionati locali e nazionali, equiparandoli agli atleti con cittadinanza italiana. È il massimo di autonomia che possono utilizzare. La Federazione Italiana Pugilato si comporta così, e non è affatto l’unica. Dopodiché, intervengono le leggi dello Stato che interrompono questi percorsi. In questo modo, crescono atleti, anche molto forti, che sono praticamente costretti, se vogliono partecipare a competizioni internazionali, a scegliere la nazionale del Paese di provenienza dei genitori.
Sostituite la parola “atleti” con quella “ingegneri”, “medici”, “fisici” o altro, e capirete che il problema è di sistema. Investiamo su nuovi cittadini, costruiamo competenze e professionalità, che sono una ricchezza, e poi li lasciamo andare.
In questo la politica italiana mostra tutti i suoi limiti. Tanto più su un tema in cui, sondaggi alla mano, gli italiani stanno più avanti della politica stessa. Tocca dunque alla società civile farsi carico di promuovere una modifica della legge sulla cittadinanza che sia al passo col terzo millennio? E in che direzione?
Parlando del caso di atleti come Sirine, o come Danielle e altri, nessuno vuole chiedere la concessione di una cittadinanza per meriti sportivi (se non in casi eccezionali). Sarebbe partire da una situazione attuale di cittadini si serie A e di serie B, e dividere i secondi in serie B e C. Non è questo il punto. Questi casi devono servire da esempio per un ragionamento più esteso.
Proposte non spetta a me farne. Anche perché credo nel valore della partecipazione, e dunque penso che vadano innanzitutto coinvolte quelle che oggi si definiscono “nuove generazioni italiane”, e prima “seconde generazioni”, ma che in definitiva, a mio avviso, sono semplicemente “italiani senza cittadinanza”.
Che non sono mero oggetto della discussione, bensì sono, e vogliono essere, soggetto attivo. Come è scritto nel Manifesto del CONNGI (Coordinamento Nazionale Nuove Generazioni Italiane): “cogliamo la sfida della partecipazione democratica non come mero rispetto dei diritti e dei doveri del cittadino la cui massima espressione è il voto, ma come una questione più profonda di partecipazione e impegno sul piano politico sia formale sia informale”.
Il problema sono i tempi. Non è più il momento dei tatticismi e dei confronti ideologici fini a se stessi. Ci sono migliaia di persone in attesa di una risposta, e bisogna fare presto.
Oggi ho potuto parlare solo di una di loro, e continuerò a raccontare la storia di Sirine anche in altre forme. Spero possa diventare un megafono per tutti gli altri. Avrei voluto vederla rappresentare l’Italia alle Olimpiadi. Non sarà possibile.
Mi dispiace per lei. Mi dispiace, ancor più, per il mio, e il suo, Paese.
*Esperto di terzo settore, migrazioni e asilo, lavora da oltre vent’anni in questi campi. Ha pubblicato due libri per la Edizioni Spartaco: “Terzo settore in fondo: cronistoria semiseria di un operatore sociale precario” (2014) e “Fratello John, sorella Mary: le nuove avventure semiserie dell’operatore sociale precario Mauro Eliah” (2016), due romanzi/saggi ironici sui problemi del mondo dell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, attraverso le avventure di un operatore sociale precario, Mauro Eliah. A maggio 2021 uscirà “Azzurri a metà”, storie di atleti italiani senza cittadinanza.
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