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L’attentato a Luca Attanasio e la missione umanitaria in contesti di guerra
Il reportage pubblicato da Vita il 24 febbraio scorso riaccende i riflettori sul dramma africano. Anche a Bogotá la notizia dell’attentato all’ambasciatore Attanasio rimbalza su vari mass-media internazionali e si riapre un dibattito importante: perché non dotare il nostro Paese di un dicastero ad hoc?
Le immagini del funerale di Stato dell’ambasciatore Luca Attanasio, il caribiniere di scorta Vittorio Iacovacci e dell’autista congolese Mustapha Milambo, barbaramente assassinati a Goma, vengono diffuse sulle prime pagine e telegiornali di tutti i mass-media latinoamericani.
Non era mai successo che l’attenzione mondiale si concentrasse nel lavoro umanitario italiano in zone periferiche cosi lontane… Addirittura qui a Bogotá, il principale quotidiano colombiano El Tiempo cita le parole del presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte del ricercatore Regeni Giulio, Erasmo Palazzotto: “con la morte di Attanasio perdiamo un diplomatico competente e appassionato, un costruttore di pace”.
El Comercio di Quito pubblica l’appello del Governo dell’Ecuador che “condanna questo attacco al convoglio umanitario delle Nazioni Unite, deplorevole attentato contro tutti i principi del diritto internazionale e della convivenza pacifica dei popoli”.
Perché non erano accompagnati dai blindati ONU?
Per chi non ha mai messo il piede nelle frontiere del Sud del mondo, in prima linea, in contesti di conflitto sociale, è difficile comprendere che ci sono luoghi e situazioni in cui il pericolo e la morte ti camminano sempre a fianco. In Congo, come in Somalia, Angola, Iraq, Siria, Kurdistan, Afghanistan, nei Balcani, anche qui in Colombia, terra insanguinata da oltre mezzo secolo di un conflitto armato interno, costato 9 milioni di vittime.
Come un flashback il mio pensiero corre alla tensione, ma anche alla professionalitá dei carabinieri di scorta dell’Ambasciata in Bogotá che mi accompagnarono nell’aprile 2005, salvandomi da un attentato dopo aver scritto alcuni reportage sulla mobilitazione europea dopo un grave massacro (documentati da Vita – "La Ue esiga il rispetto dei diritti umani").
Il mistero della morte di Attanasio avvolge l’intera vicenda. Certo fa riflettere la stranezza di una delegazione con alti rappresentanti internazionali che viaggia sotto l’egida del World Food Programme ma senza l’ombrello securitario della Monusco, la missione delle Nazioni unite attiva dal 1999 nella regione, la più consistente forza multinazionale Onu del mondo, con oltre 17 mila uomini dispiegati.
Nicolò Carcano, responsabile capo delle strutture Avsi in Congo e in Sud Sudan, spiega che la strada dell’agguato “non è assolutamente sicura. Tutti quelli che vivono a Goma sanno che è una delle strade più pericolose del Congo, che a sua volta è già uno dei paesi meno sicuri al mondo".
Perché, prosegue Carcano, "sia partito con due macchine normali senza scorta non si capisce. Noi, ad esempio, come Ong quando ci muoviamo organizziamo dei convogli, ovviamente non armati, essendo operatori umanitari non usiamo le armi, ma un ambasciatore, una personalità ufficiale di alto livello non si capisce perché avesse una scorta composta da un solo uomo armato. Due macchine non blindate con solo quel povero carabiniere…È stata un’imboscata, cosa abituale qui in Congo. Personalmente ho negoziato più volte con bande che avevano rapito nostri collaboratori. Queste bande ti fermano solo e unicamente per chiederti i soldi, per rubare, nessun gruppo ti ferma per ucciderti, vogliono solo i soldi e i rapimenti sono a scopo di estorsione”.
Dare voce e visibilità alle periferie del mondo
"Grida vendetta di fronte a Dio, che debba morire un ambasciatore italiano perché si parli della tragedia del Congo!". Il missionario Giulio Albanese manda su WhatsApp una raffica di foto terrificanti, corpi sventrati dal machete: «Questo è il Congo di tutti i giorni! Un paradiso della natura, un inferno per gli uomini. Con una guerra civile da 20 anni, per prendersi le ricchezze minerarie. L’ambasciatore è morto da santo, mentre andava ad aiutare. Ma io denuncio il silenzio della politica e dell’informazione su queste che Papa Francesco chiama le periferie del mondo. Ci limitiamo a parlarne solo per la cronaca nera degli sbarchi, per dire che bisogna aiutarli a casa loro. Invece sarebbe l’informazione, la prima forma di solidarietà».
Comboniano, scrittore e direttore di riviste missionarie, padre Albanese aveva incontrato Attanasio («una persona straordinaria coi missionari») e sa chi è il mandante di questo delitto: «La gara per le commodity: il petrolio di Virunga e nei Grandi Laghi, il gas naturale a Kivu, il coltan per fare i telefonini, il cobalto in mano ai cinesi, il columbio, i diamanti, il rame, l’uranio, praticamente tutto… L’ordine è fregare al Congo tutte le materie prime. E far scappare la gente che ci abita sopra, pagando mercenari per ammazzare».
Padre Albanese non crede che ci sia l’Italia nel mirino, ma vede un segnale per tutta l’Europa: «È ora che la questione congolese entri nell’agenda europea. Scrisse qualcuno che dove non passano le merci, passano gli eserciti. Ci sono grandi responsabilità dei Paesi vicini, come il Ruanda e l’Uganda. Ma il fallimento è della politica internazionale. C’è da anni un contingente Onu che è incapace di tutto, e soprattutto di garantire lo Stato di diritto. Non possiamo continuare a far finta di niente».
Il Presidente del coordinamento nazionale di Ong CIPSI, Guido Barbera, sottolinea le ragioni del perché l’Italia viene colpita al cuore a Goma: “quello che succede in Congo, come in altri Paesi dell’Africa, è qualche cosa che ci coinvolge e ci tocca direttamente. Dal futuro dell’Africa non dipende solo qualche affare ma il destino di tutti noi e dei nostri Paesi. Come scrive Mario Giro nel suo libro “Guerre nere” (Guerini Edizioni, 2020), l’Africa sta diventando ‘il laboratorio di una globalizzazione senza misericordia né benevolenza’. Basta pensare alle conseguenze sulle popolazioni locali per far spazio allo sfruttamento delle materie prime, dal coltan al cobalto, alla natura distrutta.
Nel completo silenzio internazionale, in Congo si sta consumando un lungo e costante olocausto: 6 milioni di morti; 48 donne stuprate ogni ora; 40.000 bambini ridotti in schiavitù…
E per cosa? Solo perché le potenze internazionali possano saccheggiare le risorse di uno dei Paesi più ricchi al mondo impunemente. Il genocidio in Congo dura da ormai 20 anni. Gruppi armati dalle potenze internazionali si combattono per il controllo delle zone minerarie del Paese. Apple, Microsoft, Google, Dell e Tesla sono state accusate di aver consapevolmente tratto profitto dal lavoro minorile nelle miniere di coltan e cobalto. E nessuno ne sta parlando…”, conclude Barbera.
Il reportage pubblicato da Vita il 24 febbraio scorso, riaccende i riflettori sul dramma africano. Anche a Bogotá la notizia dell’attentato all’ambasciatore Attanasio rimbalza su vari mass-media internazionali come El Espectador, The Guardian, El Comercio, Telesur e si riapre un dibattito importante: perché non dotare il nostro Paese di un dicastero ad hoc?
Pasquale Paciolla, cugino di Mario Paciolla, 33 anni, cooperante ONU ucciso nel luglio scorso nel Caguan colombiano, sottolinea: "Morsolin nel suo articolo su VITA, oltre a proporre al premier Draghi un Ministero della Pace, evidenzia la necessità per la ricerca della verità e giustizia per MarioPaciolla. Lo ringrazio per il suo costante impegno sul caso di Mario e in favore dei diritti civili".
La scrittrice colombiana Mayas e difensora feminista, esprime “solidarietá all’Italia per questa assurda e dolorosa perdita per l’umanitá, dove un viaggio per portare aiuti umanitari costó la vita all’ambasciatore Attanasio”.
Il presidente della Comunitá Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, mi aiuta a diffondere la dichiarazione del Nobel della Pace, Denis Mukwege il cui silenzio assordante dei mass-media italiani ne rivela la triste indifferenza.
Il coraggioso medico Denis Mukwege, che da oltre 15 anni opera nel Panzi Hospital del Kivu Sud, la provincia piú insanguinata del Congo, simbolo planetario di impegno umanitario, che aveva incontrato recentemente anche l’ambasciatore Attanasio, afferma il suo “sgomento per l’assassinio dell’ambasciatore Attanasio e i suoi collaboratori. Stiamo lavorando per la promozione della pace. Congo perde un grande amico. Questo crimine, nessun criminine, non deve rimanere impunito. Stop violenze e impunitá nella Repubblica DRC del Congo".
Non è un esercizio liturgico ma un dovere civico
Paolo Siani, oggi ha un ruolo istituzionale di alto livello come presidente della Commissione Infanzia della Camera dei Deputati (PD) ma ha alle spalle una lunga militanza antimafia come fratello del giovane giornalista Giancarlo Siani, animatore di Libera in Campania, portavoce delle vittime, che ora da nuova luce sull’attentato in Goma: “Ricordare i morti non è un esercizio liturgico ma un dovere civico. È una condizione essenziale per aiutare i vivi a restare vivi”.
Il sacrificio dell’ambasciatore Attanasio apre la riflessione sul significato etico e spirituale del lavoro umanitario, ricordando suoi discorsi presentati sia in Italia che con i missionari in Congo.
“Il Congo è un paese complicato, tante delle cose che diamo per scontate, come la pace, la salute, l’istruzione, sono un privilegio per pochissimi. Tutto ciò che noi in Italia diamo per scontato non lo è in Congo dove purtroppo ci sono ancora tanti problemi da risolvere. Il ruolo dell’ambasciata è innanzitutto quello di stare vicino agli italiani ma anche contribuire per il raggiungimento della pace. Lavorare in ambito umanitario significa recarsi in Paesi difficili, dove le condizioni di vita sono molto diverse da quelle alle quali siamo abituati. Significa affrontare emergenze ma soprattutto contribuire al raggiungimento della pace. Io e mia moglie abbiamo tre bambine e quando dico che sono ambasciatore in Congo tutti sono stupiti, ci dicono che e´pericoloso. Ma partiamo da un presupposto, che fare l’ambasciatore é una missione, hai il dovere di dare l’esempio”, ripeteva l’ambasciatore Luca Attanasio.
Emerge anche l’importanza del dialogo ecumenico tra religioni che spiega Zakia Seddiki, moglie marocchina di Attanasio: con Luca "dividevamo e condividevamo tutto, perciò anche le rispettive religioni: frequentavo la chiesa, con i riti cattolici. E lui faceva lo stesso, partecipando ai riti islamici. Non c'e' stato mai alcun problema anche sull'educazione delle nostre figlie a cui abbiamo sempre letto sia la Bibbia che il Corano".
Attanasio aveva frequentato l’Oratorio nell’originaria Brianza, apprendendo dagli incontri ecumenici di Taize il valore del dialogo e dell’incontro.
La Accademia Pontificia di Scienze Sociali del Vaticano PAS ha confermato questa lettura interpretativa diffondendo un mio tweet: Ecco il nostro Ambasciatore #lucaAttanasio, ricordando visita in Miaffet, e la cultura del dialogo e dell'incontro cara a Papa Francesco, realtà sconosciute ai ministri congolesi… Anche Vita diffonde questa foto mentre Attanasio cammina tra baracche di fango a MIAFFET.
Come rompere il silenzio e rilanciare la Pace?
Maria Rita Gallozzi, cooperation projects in sub-Saharian Africa, aggiunge che "era un uomo di pace, ha sempre preso posizione sulla guerra e sulle vendite d’armi in quella zona dell’Africa centrale conosciuta, purtroppo, per il fenomeno dei bambini soldato".
Il coordinamento nazionale CIPSI invita a realizzare compartamenti di pace.
1. Esigere assoluta trasparenza sul reperimento delle materie prime per la costruzione di cellulari, televisori, computer, motori elettrici.
2. Chiedere alle aziende colpevoli di sfruttamento minorile – anche attraverso terzi – di rispondere dei propri crimini, compensando le famiglie coinvolte e promuovere un sistema di estrazione delle materie in questione finalmente etico e umano.
L’attentato contro Attanasio deve rinnovare anche l’agenda globale della pace, ricordando giovani vite spezzate mentre operavano per far rispettare i diritti umani e le fragili democrazie del Sud del mondo, come la giornalista RAI, Ilaria Alpi, il ricercatore triestino Giulio Regeni, il napoletano Mario Paciolla.
Osservo il prezioso impegno di Paola Deffendi e Claudio Regeni, genitori di Giulio, per esercitare pressioni politiche sul nostro Parlamento, perche la pace e’ sempre legata alla ricerca della giustizia – come mi ha ricordato Papa Francesco quando mi ha ricevuto nell’ottobre 2017 – come documentato da Vita.
Proprio agli inizi di quest’anno il Presidente della Camera dei Deputati Fico, si é unito ai genitori di Giulio Regeni per chiedere il boycot delle armi e navi vendute dall’Italia all’Egitto.
“Voglio dire che quella delle fregate vendute all’Egitto è un’immagine che non avremmo voluto vedere. Paola e Claudio Regeni sono due genitori. E sono soprattutto due cittadini italiani che combattono perché venga fatta verità. E giustizia. Il loro gesto pone un tema di enorme riflessione per lo Stato italiano alla luce delle norme vigenti. E giunge a poche ore dall’ennesimo schiaffo dell’Egitto al nostro Paese. Con le irricevibili motivazioni con cui la procura del Cairo ha deciso di non collaborare. L’Egitto deve sapere che l’Italia non si volterà dall’altra parte. E continuerà a pretendere verità e giustizia per Giulio Regeni”.
I genitori del ricercatore italiano ucciso in Egitto nel 2016, infatti, hanno denunciato il governo italiano per violazione della legge sulla vendita di armi a Paesi, autori di gravi violazioni dei diritti umani, riportava La Stampa.
Dalla morte del cooperante napoletano Mario Paciolla, ho paura, paura anche per Silvia e Monica che fanno interposizione non-violenta in zone rurali molto isolate.
I padroni della guerra hanno condannato a morte gli osservatori internazionali scomodi, non solo i difensori locali dei diritti umani, che quotidianamente continuano a essere massacrati dalla narco-politica, dal “modello colombiano di barbarie”.
Concludendo, varie espressioni della societá civile italiana in America Latina chiedono a la Viceministra degli Esteri, Marina Sereni, maggior dialogo per rafforzare l’agenda della pace del Governo Italiano in contesti di violazione sistematica dei diritti umani.
* esperto di diritti umani che vive in America Latina dal 2001
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